Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 29 marzo 2017

A/MARE TERRE D'APULIA


 Per molti, troppi, il futuro delle terre pugliesi è la negazione della loro vocazione. Dopo aver scongiurato la costruzione di una centrale nucleare, il popolo avetranese sta cercando di preservare il mare di Specchiarica dal collettore fognario del depuratore consortile e mentre si discute delle alternative, a Urmo Belsito arriva il cantiere dei lavori. Intanto in quel territorio, sede di una meravigliosa riserva naturale tutelata, si susseguono incendi su incendi.
E arriva così la notizia che il Consiglio di Stato ha dato il via libera alla realizzazione del gasdotto che attraverserà l’Adriatico, il famoso Tap (Trans Adriatic Pipeline), approdando in Puglia, a San Foca, Lecce. L'eradicazione di 200 ulivi è solo il primo prezzo da pagare. Il compagno fraterno e amico Ippazio Luceri, un alfiere della lotta NO TAP, è stato portato via in ambulanza l'altro giorno mentre era in corso la manifestazione a San Basilio. E non vuole smettere lo sciopero della fame. Dov'è Emiliano? In campagna elettorale.


LA TERRA E' NOSTRA
quando il gioco si fa duro, polizia e magistratura sanno da che parte stare. Anche noi, a difesa della nostra terra!
Forza Pati, forza compagni, NO PASARAN



In memoria di Sergio Manes


Il ricordo dei compagni de La Contraddizione

Difficile parlare di una persona conosciuta da sempre. Non c’è memoria distinta, infatti, del primo incontro, come del primo impegno culturale, politico, della prima militanza, dei primi pensieri tendenti al comunismo, del primo accesso ai livelli scientifici della transizione socialista, come dire insomma della teoria della rivoluzione iniziatasi più di cento anni fa. È come se Sergio fosse da sempre compresente a tutto ciò, alle battaglie sindacali, politiche, alle fasi propositive e a quelle recessive della nostra storia recente, con il suo instancabile fare, proporre, suggerire, lottare su tutti i terreni possibili per l’apertura di varchi ad una umanità meritevole di una destinazione di crescita razionale e di giustizia sociale. Le sue ultime parole per definire il comunismo sono state proprio tese a ribadire che infine, da qualunque versante lo si volesse considerare, avrebbe dovuto inevitabilmente sfociare nel diritto alla vita di tutti, e nella umanizzazione consapevole di una comunità mondiale in grado di soddisfare i bisogni storici della vita.

 Nel suo modo di esprimersi, a metà scherzoso e a metà serio, era solito dire di avere tre figli: due in carne e ossa, amatissimi, e un terzo partorito come casa editrice di cui ha continuamente curato, non solo la nascita ma poi anche la crescita, concepita come erede naturale di tutte le pubblicazioni necessarie a informare scientificamente in senso lato, e in particolare sul pensiero socialista e comunista. Il mantenimento della memoria del sapere attraverso il libro, colto o divulgativo, specialistico o politico, nel momento in cui la lettura veniva meno, le case editrici storiche della sinistra sparivano una dietro l’altra, i classici del marxismo venivano mandati al macero o su qualche sparuta bancarella e le librerie che li tenevano vendute ad altre attività commerciali, significava scommettere sulla sopravvivenza, in questi lunghi tempi bui, della consapevolezza delle contraddizioni del sistema, del conseguente sfruttamento umano necessario al dominio di questo, della crescente distruttività legata al suo inevitabile progresso, infine della altrettanto ineluttabile tendenza alla sua fine e superamento in un altro modo di produzione.

 Difficile parlare di Sergio Manes, nel senso che era stato capace di confondersi nei molteplici momenti di lotta sociale, nella storia delle trasformazioni del comunismo italiano e internazionale, solerte punto di riferimento di iniziative culturali e per pubblicazioni editoriali coraggiose, che altrove non avrebbero avuto spazio data la regressione sociale e politica di questi ultimi cinquant’anni. Come persona, pur essendo una individualità forte e spiccata, autorevole e tenace, non era schivo dal mostrare anche i lati più teneri, affettuosi e fragili legati agli affetti più cari, all’amicizia dei compagni considerata sempre come il bene più prezioso di cui avrebbe sentito una mancanza insopportabile semmai fosse venuta meno. Oggi a parlare a tutti di Sergio saranno le innumerevoli pubblicazioni della Città del Sole, che ci auguriamo possano continuare ad essere prodotte, proprio come lui auspicava, nell’ottica di una continuità non solo della sua lotta personale, ma soprattutto della necessità di resistenza sociale della cultura marxista di contro a ogni ostracismo opposto dal capitale. La “Città del Sole” non è soltanto stata la sua casa editrice, ma anche un centro stabile di incontri e dibattiti cultural-politici che Sergio ha tenuto caparbiamente a costituire a Napoli, nonostante tutti i tentativi di esproprio, i furti, le effrazioni e distruzioni subite, operate da riconoscibili ignoti mai efficacemente perseguiti, ad irrisione delle puntuali denunce effettuate.

 La lunga collaborazione con l’associazione Contraddizione si è tradotta con la collana “Il socialismo scientifico” da cui è scaturito Laboratorio politico, la cui definizione era appunto la cifra costante di Sergio:“iniziativa militante che si pone –senza riproporre vecchie preclusioni e al di fuori di nuove divisioni – al servizio di una ripresa culturale e politica del movimento comunista… aperta ad ogni livello di contributo di tutti i militanti, poiché potrà raggiungere gli obiettivi per cui è nata solo con l’apporto e la collaborazione attiva di chi, con indomabile ostinazione, è impegnato più che mai a comprendere e trasformare la realtà, a battersi per realizzare i valori e gli ideali del comunismo”. Un’altra collana intitolata “Comunismo In/formazione”, sempre entro Laboratorio politico, ha affrontato diverse tematiche del presente sulla falsariga delle analisi marxiane, per attestarne e dimostrarne l’assoluta attualità e unicità analitica per la critica del presente. Inutile ribadire che senza la piattaforma e la disponibilità di questa casa editrice il lavoro profuso per i vari contributi non avrebbe mai visto la luce. Questa, inoltre, è stata la base anche per molte altre collaborazioni con docenti di ogni ordine e grado, riviste legate alla tradizione di sinistra, strutture sindacali, compagni sparsi e movimenti che faticosamente Manes ha continuamente ricercato, contattato, sollecitato e aiutato ad esistere. La casa editrice era il supporto e lo strumento che si attivava ovunque un nucleo di resistenza all’abbandono del comunismo si evidenziasse con le forze possibili ma reali.

 Già dallo scorso anno Sergio aveva avviato i preparativi per una riflessione critica sulla rivoluzione d’ottobre in occasione, quest’anno, del ricorrere del suo centenario. Non si doveva trattare né di una commemorazione né di una celebrazione ritualistica, ma di una valutazione a più voci sul significato storico, sulla sua supposta attualità o meno, sulla sua permanenza nel presente, anche nei più giovani, e sulla sua forza ancora propositiva nelle contraddizioni di un imperialismo dei nostri giorni più avanzato e minaccioso. Seppure non riuscirà a vederne le conclusioni, tutti i compagni impegnatisi in quest’obiettivo nel portare a termine – forse in ottobre o novembre di quest’anno – sentono ora di proseguire i lavori anche in suo nome, come per tutte le altre iniziative e proposte che Sergio ha lasciato incompiute nella vita della sua terza, preziosa creatura. In essa si concretizza quella difficile sintesi di teoria e prassi che Sergio Manes ha mostrato come quella “cosa semplice difficile a farsi” [1].

 Note:


[1] L’ultima citazione, per chi volesse apprenderne completamente il significato, non conoscendola, è la frase finale di B. Brecht in “Lode del comunismo”, 1933.

25/03/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
 
 

giovedì 23 marzo 2017

CIAO, SERGIO


Il compagno Sergio Manes è morto. Malato da tempo, si è impegnato sino all'ultimo nella grandiosa e lunga lotta per un cambiamento di società. Militante comunista, editore, patrocinatore di iniziative di studio e di ricerca (per esempio, il convegno del 2003 a Napoli sui problemi della transizione al socialismo in Urss), Sergio Manes, attraverso il Centro di Documentazione "La Città del Sole", ha fornito un contributo tangibile alla difesa e al rilancio dello studio del marxismo come strumento critico di comprensione della realtà e arma ideologica fondamentale per i militanti comunisti e le loro organizzazioni nella lotta di classe.


ho avuto la fortuna di conoscerti, di aver lavorato insieme a te, ho curato per la tua casa editrice l'antologia "I quadri e le masse" di Pietro Secchia, hai pubblicato miei contributi in testi collettanei.

inoltre:
A.S.Makarenko e la didattica del collettivo, in AA.VV., Problemi della transizione al socialismo in URSS, La Città del Sole, 2004
Introduzione a: A.S.Makarenko, Consigli ai genitori, La Città del Sole, 2005

Eri un punto di riferimento per il nostro marxismo. Ciao, Sergio (fe.d.)


martedì 21 marzo 2017

IL SUO NOME VIVRA' NEI SECOLI


                                                    Sulla tomba di Marx         



Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra. L'avevamo lasciato solo da appena due minuti e al nostro ritorno l'abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.

Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d'Europa e d'America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.

Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana e cioè il fatto elementare, finora nascosto sotto l'orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi prima di occuparsi di politica, di scienza, d'arte, di religione, ecc.; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immediati di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un'epoca in ogni momento determinato costituiscono la base sulla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l'arte ed anche le idee religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devono venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.

Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.

Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire tutta una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui Marx ha svolto le sue ricerche - e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale - in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.

Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l'applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell'industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell'elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcello Deprez (1).

Perché Marx  era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell'altro all'abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all'emancipazione del proletariato moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto. La prima Rheinische Zeitung nel 1842, il Vorwärts di Parigi nel 1844, la Deutsche Brüsseler Zeitung nel 1847, la Neue Rheinische Zeitung nel 1848-49, la New York Tribune dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande "Associazione Internazionale degli Operai", ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto niente altro.

Marx era perciò l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero; i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.
Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!

Note:

* F. Engels, Sulla tomba di Marx, Discorso pronunciato al cimitero di Highgate (Londra) il 17 marzo 1883 e pubblicato sul Sozialdemokrat di Zurigo, n. 13, il 22/03/1883 - in Ricordi su Marx, Rinascita, 1951, pag. 7

1) Fisico francese che fece i primi tentativi di trasmissione dell'energia a distanza.



giovedì 16 marzo 2017

L’ANNIVERSARIO DELL’UNITA’ D’ITALIA CON LA COMMEMORAZIONE DI PIETRO PANDIANI


AL “VITTORINO DA FELTRE” DI TARANTO L’ANNIVERSARIO DELL’UNITA’ D’ITALIA CON LA COMMEMORAZIONE DI PIETRO PANDIANI
Nell’ambito del Progetto ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – sezione di Taranto) per le scuole, in coincidenza dell’anniversario dell’Unità d’Italia
VENERDI 17 MARZO 2017
Aula Magna Liceo delle Scienze Umane “Vittorino da Feltre”...
h.10,00:12,00
incontro con gli studenti sulla figura di PANDIANI, “Capitan Pietro”, il partigiano tarantino che contribuì con una brigata di “Giustizia e Libertà” alla liberazione di Bologna
porgerà i saluti all’incontro la Dirigente Scolastica prof.ssa Alessandra Larizza
comunicazione su “Il Progetto ANPI per le scuole” a cura di Marcello Barletta – vice-Presidente ANPI provinciale
introdurrà i lavori su “Resistenza come secondo Risorgimento” il prof. Ferdinando Dubla (docente di Scienze Umane)
relazionerà: prof. Roberto Nistri (storico)
modererà i lavori: prof. Gianmario Leone (giornalista e docente di storia)


 
LA RESISTENZA COME SECONDO RISORGIMENTO: l'esempio di PIETRO PANDIANI, partigiano tarantino (1915/1972)

lunedì 13 marzo 2017

NOTE SU FB (marzo 2017) -- NO OIL, NO TAV, NO ILVA/RIBELLARSI È GIUSTO


 SINERGIE
-i poteri forti? non marciano più ognuno per conto proprio, se mai questo in passato è avvenuto. Sono in combinazione tra di loro o, come ama dirsi oggi, in sinergia tra di loro. Esempi? Tanti. Andiamo alle prime pagine, I FURBETTI del segreto di Pulcinella e LO STADIO dei seguaci di Romolo.
-- ho bisogno di far passare una legge che peggiora la Pubblica Amministrazione, gia' bocciata dalle Alti Corti, voglio diminuire i dipendenti, nonostante i magri organici rispetto all'elefantiasi burocratica, vera causa di inefficienza, controllarli, licenziarli se non ubbidiscono. La magistratura da ben due anni ha un'indagine a Napoli: pronti, via! i furbetti, i furbetti, morte ai furbetti, presto presto decreto Madia, è il coro dei megafoni https://www.facebook.com/images/emoji.php/v7/f92/1.5/16/1f4e2.png📢
--- disoccupazione, periferie ed emarginazione, la Raggi che fa? La priorità è lo stadio di una squadra di calcio, piuttosto, i costruttori premono, i tifosi urlano, e il TG2 mette un servizio di 10 minuti in prima notizia assoluta.
Sinergie, signori, sinergie...

QUALE PROFILO DI SINDACO PER TARANTO?
nella riunione di cellula di giovedì 9 u.s., i compagni del PCI "Nino D'Ippolito" di Taranto centro, hanno delineato il profilo necessario del futuro imminente Sindaco di Taras. Chi crede che il primo cittadino della riva dei due mari possa avere forza economica, si sbaglia. Non solo per ragioni sistemiche, come sottolineato dal segr.regionale  
Franco De Mario  all'ultimo Comitato Politico Provinciale, ma anche per ragioni specifiche: egli/ella deve essere ricattabile, con le buone (corruzione di sistema) o con le cattive (intimidazioni dei poteri forti e corruzione aggiuntiva, blocco delle fonti di finanziamento, intralci burocratici, progettistica faraonica per speculazioni edilo-finanziarie, ultimo grido alla moda, vedi Roma e Firenze, qui c'è Cimino, con il megaospedale e giustamente accanto il nuovo cimitero, grande e comodo, almeno da morti lontani dalla puzza siderurgica). Il nuovo Sindaco potrà solo usare una forza politico- sociale: la posizione geostrategica economico-industriale della città. Deve essere leader di un movimento che sappia alzare la voce e combattere con la mobilitazione i poteri forti, saper difendere con le barricate morali e materiali SALUTE-LAVORO-AMBIENTE di un territorio letteralmente stuprato e depredato negli anni, dimostrare che il vero futuro è il nostro passato, la bellezza, la cultura, la tipicità produttiva antica della nostra popolazione. In parte è quello che ha fatto De Magistris a Napoli, ed è quello che la sinistra deve fare a Taranto. Ma, all'orizzonte, voi che vedete?
 
NO OIL, NO TAV, NO ILVA/RIBELLARSI È GIUSTO
il mondo dei nativi, da Washington a Taranto, contro l'imperialismo economico del liberismo delle oligarchie e dei potentati finanziari. Ma non vi accorgete che è la stessa lotta?



Note su FB,  ferdinando dubla (Dublicius)-  marzo 2017

 

 

TESTIMONIANZA SUI CONVITTI SCUOLA DELLA REPUBBLICA (3)





di Luciano Raimondi
Ancora una testimonianza sui Convitti della Rinascita di Luciano Raimondi. Questo contributo si segnala anche per l’indicazione metodologica di tipo didattico e più complessivamente pedagogico. L’ispirazione formativa dei convitti aveva punti di contatto con il "collettivo" makarenkiano, finalizzata a un nuovo umanesimo che fosse sintesi mirabile dei valori della Resistenza antifascista, la scuola dell’inveramento della Costituzione. Tutti hanno diritto all’istruzione e le classi lavoratrici possono direttamente praticare la democrazia sociale integrale nella discussione e nella partecipazione. Troppo per chi, in quei dieci anni (1945/1955), pose termine a quella straordinaria esperienza con un pianificato disegno conservatore e clericale. (fe.d.)

Lo scritto risale all’anno 1973, quando Raimondi si trovava a Città del Messico come addetto nel locale Istituto Italiano di Cultura. E’ stato elaborato su richiesta dell’allora studentessa universitaria Graziella Cavallero, laureanda in pedagogia presso l’Università degli Studi di Torino, nell’anno accademico 1973-1974, che lo inserì nella propria tesi "I Convitti Scuola della Rinascita".


 
I precedenti culturali ideologici dei Convitti Scuola Rinascita stanno in Gramsci, Banfi, Gobetti, Calamandrei, Concetto Marchesi. Si trovano allacciamenti con Gramsci perché questi ha rappresentato nella cultura italiana una posizione critica dei miti coltivati dal nazionalismo e dal fascismo; la sua opera fu quindi fondamentale per tutti gli antifascisti nel campo pedagogico. Con Antonio Banfi invece abbiamo avuto dei rapporti diretti; infatti ero allievo di Banfi, che anche durante il fascismo è sempre stato su posizioni antifasciste. Egli, anche se ufficialmente era professore nell’università dominata dai fascisti, dirigeva corsi che erano soprattutto di ispirazione antifascista, quindi quell’apertura verso una scuola attiva, democratica, noi l’abbiamo assimilata all’Università di Milano. L’impostazione verso una cultura di libertà personalmente l’ho avuta anche da Piero Martinetti, che è stato uno dei filosofi italiani che ha scritto dei libri sulla libertà in pieno periodo fascista, uno dei pochi che non ha mai giurato fedeltà al fascismo e si è ritirato dall’Università nel momento in cui si imponeva ai docenti il giuramento di fedeltà al regime. Con Antonio Banfi poi i rapporti sono sempre stati personali. Era un maestro che ci stava vicino, noi frequentavamo casa sua, durante il periodo fascista si tenevano conversazioni antifasciste, si immaginava già quale poteva essere il futuro del nostro paese quando il fascismo l’avrebbe ridotto, come diceva Gramsci, all’estremo della rovina. Abbiamo anche avuto contatti operativi nella Resistenza. Banfi era a Milano, collaborava attivamente con le forze della Resistenza (CLN) e quando io ero in montagna, molto spesso venivo a Milano da Banfi per consigli sulla lotta partigiana, e così una volta caduto il fascismo con Banfi abbiamo insieme discusso i problemi della riforma della scuola e di impostazione di una cultura nuova. Banfi ci è sempre stato vicino, ci ha consigliati, incoraggiati, aiutati. Con Banfi siamo sempre andati di perfetto accordo, anche se su particolari tesi si poteva discutere. Io, per esempio, ero d’accordo con Concetto Marchesi su una base umanistica per tutti. Banfi la riteneva una posizione conservatrice, sosteneva che bisognava fare scuole tecniche e professionali: quindi non lo studio del latino per tutti. Io invece ero per una base umanistica polivalente. Banfi però, nonostante alcune discussioni, ci ha seguiti e aiutati anche nella sua azione parlamentare.
I presupposti ideologici della pedagogia dei Convitti venivano dalla tradizione della scuola attiva contemporanea, tradizioni pragmatistiche americane, come potrebbe essere la tradizione di Dewey, Kilpatrick o anche tradizioni nazionali che avevano i loro precedenti nella Montessori, nella Agazzi, fino ad arrivare a Codignola e all’esperienza di Scuola città che si sviluppò parallelamente alla nostra esperienza. In un certo momento, sia la Scuola città di Firenze di Codignola che i Convitti per orfani Rinascita erano sotto l’egida e all’attenzione dell’UNESCO internazionale, che li raccomandava ai Governi aderenti.
Naturalmente anche l’esperienza di Makarenko veniva tenuta presente, soprattutto per la relazione dell’educazione dell’individuo nell’ambiente sociale, nell’azione pratica e nel lavoro. Questo presupposto generale di una scuola che non fosse solo di informazione teorica, ma fosse di pratica democratica, di costume democratico e nella ricerca teorica fosse di apertura critica, di collaborazione e di ricerca comune di gruppo è il fondamento pedagogico dei Convitti Scuola della Rinascita.
Si sono poi sviluppate strutture adeguate per realizzare questi ideali di formazione di costume oltre che di mente e di sviluppo di prassi democratica e di ricerca scientifica e tecnica, che si unissero in una sintesi efficace di umanità e di sviluppo umano.
Circa l’organizzazione dei corsi professionali, che erano quelli che interessavano urgentemente e direttamente i giovani smobilitati dalla guerra, l’impostazione è stata fin dall’inizio organica, io direi scientifica, grazie anche alla collaborazione del professor Cesare Musatti e del professor Kanizsa.

 Noi prima di tutto abbiamo previsto che i candidati ai vari corsi di specializzazione tecnica professionale dovessero avere i requisiti indispensabili per avere successo nella loro professione, e perciò nel Convitto di Milano s’era fatto uno studio sulle varie professioni, sulle caratteristiche che ciascuna professione implica nel suo esercizio, determinando, al di là del profilo professionale, anche il profitto attitudinale, ed elaborando in una maniera abbastanza precisa dei test di controllo della presenza di attitudini per la determinata professione. In un Centro di Orientamento agli studi e alle professioni si studiavano, per un periodo che andava da un mese a tre mesi, le caratteristiche dei vari allievi, si sottoponevano anche a dei corsi sperimentali per vedere come l’allievo resisteva nel tempo, nella costanza e nello sviluppo delle prime nozioni apprese facilmente.
La capacità di assimilazione era indicazione utile anche per l’orientamento, in modo che alla prova ambulatoriale cosiddetta psicotecnica si sostituiva una prova per così dire clinica, per vedere la resistenza dell’indicazione attitudinale e vedere le sue possibilità di sviluppo. Dopo questo periodo per così dire clinico, si consigliava, non si imponeva, agli allievi di scegliere un determinato corso professionale.
I corsi professionali venivano poi studiati in relazione a profili regionali di produzione e di sviluppo produttivo, in modo che in ciascuna regione si facevano corsi che nascevano dalle sue caratteristiche produttive. Così a Cremona in modo particolare c’era la tecnica del caseificio e dell’allevamento dei suini, a Torino corsi per meccanici e tecnici.
Vari congressi hanno poi messo a punto le caratteristiche dei Convitti, mentre in un primo tempo c’erano problemi di recupero anche agli studi tecnici. Ragazzi che avevano l’avviamento e volevano frequentare l’istituto tecnico trovavano nel Convitto corsi accelerati per sostenere gli esami nelle scuole pubbliche. Successivamente nei vari congressi i Convitti si sono specializzati di più nell’organizzazione di corsi che fossero adeguati alla regione dove sorgevano.
Ricordo che qualche volta ci inserivamo in scuole già esistenti, che non erano accompagnate da convitto, ma intervenuti noi, davamo la scuola completa, con convitto, con corsi fatti completamente da noi.
Novara ha avuto l’esperienza della scuola per bambini, la scuola visitata da Washburne e diretta dalla professoressa Anna Maria Princigalli, che aveva la caratteristica di scuola attiva, una scuola che fosse, in un certo senso, società vissuta oltre che scuola di tipo elementare.


A Bologna Molinella vi era una scuola di agricoltura, specializzata in viticoltura, orticoltura, frutticoltura, con pratica produttiva di tipo cooperativo. A Bologna città vi erano invece corsi di assistenti e disegnatori edili, poiché la ricostruzione edilizia era un’esigenza sentita in quel momento nella regione. Due sedi quindi a Bologna, una agricola nella campagna romagnola e l’altra di tipo edilizio. Naturalmente anche qui, oltre a corsi di tipo professionale specializzati, c’erano corsi di recupero in settori di istituto tecnico superiore per geometri e periti edili, che si facevano per presentare gli allievi agli esami normali negli istituti industriali tecnici dello Stato. C’era sempre la duplicità dei corsi: corsi di recupero agli studi per il conseguimento di un titolo di studio e nello stesso tempo corsi professionali tecnici di specializzazione, indipendentemente dal titolo di studio.

A Reggio Emilia, il Convitto Rinascita aveva caratteristiche similari a quelle del Convitto di Bologna. Comprendeva infatti una sezione agraria (di meccanica agraria) e una sezione di assistenti edili e geometri. Il Convitto di Reggio Emilia ha indicato la sua validità perché, in un certo momento, in mancanza di fondi, gli allievi con i professori avevano organizzato la costruzione di case, di macchine, di apparecchi meccanici agrari ed era nata una specie di azienda che finanziava in Convitto, come del resto a Cremona, dove a un certo momento i convittori producevano formaggio, allevavano maiali e vendevano i loro prodotti, autofinanziandosi; quindi, a parte il vantaggio tecnico del passaggio alla produzione, si trattava anche qui di una scuola-azienda.
In un congresso si era lanciata l’idea di trasformare tutti i Convitti in scuole-aziende, poiché i Ministeri ritiravano i finanziamenti, nonostante l’intervento suppletivo di Fanfani per il finanziamento ai corsi professionali. Si doveva infatti risolvere il problema dell’autonomia finanziaria, e si è formata una scuola-azienda anche a Milano, dove i grafici pubblicitari hanno formato una cooperativa il cui scopo era quello di impiegare gli allievi, di dar loro la possibilità di un’applicazione produttiva, diretta, quotidiana, delle nozioni che imparavano, e nello stesso tempo c’era la finalità di raccogliere fondi per il Convitto. La cooperativa, da quando è nata, ha sempre dato fondi al Convitto e ha sempre dato la possibilità di lavoro agli allievi, al di là delle lezioni, e ancor oggi l’Organizzazione C.R. dà contributi al Convitto.
Anche a Sanremo il Convitto gestiva un albergo che aveva sede ad Ospedaletti, con introiti che andavano al Convitto: quindi cuochi, portieri, camerieri, amministratori, tutti convittori. Ad un certo momento però il proprietario dell’albergo, normalizzatesi le relazioni internazionali del turismo, ha revocato a sé la gestione dell’albergo.
Quello che sopravvive ancor oggi è un’attività produttiva in forma cooperativa a Reggio Emilia nel campo della meccanica agraria e a Milano nel campo della pubblicità (quindi anche allestimenti per fiere), attività che dà a Milano contributi al Convitto sotto forma di borse di studio. E’ fallita quindi la scuola-azienda, ma è continuata l’azienda cooperativa.
La mia attività nei Convitti è stata dura; appena tornato dalla montagna mi sono trovato in mezzo ai giovani partigiani; io avevo la fortuna di aver già terminato gli studi e mi sono occupato subito, dal maggio 1945, di organizzare corsi accelerati introducendo variazioni metodologiche. I corsi erano molto interessanti, ma erano per me di un impegno enorme; poi i ragazzi stessi hanno moltiplicato il loro entusiasmo, portando le iniziative di un Comitato Promotore a Torino e in altre città, andando incontro a esigenze che erano sentite; anche se i partiti non diedero pubblicità a questa attività l’esigenza dei giovani ha risposto immediatamente: infatti a Torino, a Genova e in altre città abbiamo trovato partigiani e reduci che condividevano le nostre esigenze.

Io ho lavorato per anni, senza vacanze, andando di città in città, seguendo le riunioni dei Congressi dei Convitti fino al 1959. La condizione degli insegnanti come me, nei Convitti, grazie alle disposizioni alleate, è stata quella di comandati ai Convitti. Io all’inizio insegnavo storia, non dimenticando però alcune lezioni di latino in forma viva attraverso scene di vita romana; non insegnavo a tradurre in latino, ma a scrivere, a comporre in latino. Il latino quindi veniva imparato in forma viva, oltre che come mezzo per una chiarificazione delle categorie logiche del linguaggio. Questa fu una delle prime esperienze didattiche; poi c’era la grande esperienza che ormai veniva anche dalla vita partigiana, che era quella dell’informazione storica, del chiarimento della situazione storica in cui vivevamo, dei motivi dell’antifascismo, dei risultati a cui eravamo arrivati, probabilmente già allora con parecchie amare disillusioni circa l’incompiutezza della Resistenza italiana e circa tutta una problematica che veniva discussa, come quella sull’accettazione passiva della caduta del governo Parri. I partigiani nella loro considerazione storica non accettavano una passività che invece si è realizzata per combinazioni politiche che noi non condividevamo.

Insegnante di storia, insegnante di latino, partecipavo in modo particolare allo studio di nuovi programmi, seguivo con interesse per esempio la professoressa Alba Dell’Acqua che aveva già in mente una riforma dell’insegnamento della matematica, anticipando molte cose che sono venute dopo; anche in materia di fisica c’era l’ansia della constatazione sperimentali in laboratori sia pur rudimentali, messi a disposizione dei ragazzi per verificare le nozioni teoriche.
Così siamo andati avanti con un nucleo di professori comandati pagati dallo Stato, che lavoravano con noi; professori emeriti, basti pensare al professor Lucio Lombardo Radice, a Mario Alighiero Manacorda, a Quaroni, a Galliussi, al professor Ezio Raimondi di Bologna, a Vittorini. C’era quindi un’apertura non solo nell’attività scolastica, ma anche nell’attività pubblicistica. Io per esempio ho collaborato con Vittorini nei primi numeri del “Politecnico”. Era tutta un’attività di questo tipo, organizzativa, di controllo tecnico, di studio, di programmi, di controllo di metodi, di direzione di commissioni di studio.
Prima insegnavo a Milano, poi per un certo periodo sono stato a Roma, quando c’era la necessità di un’organizzazione più osmotica fra i vari Convitti in maniera da specializzare ciascuno nel suo settore, di sollecitazione di congressi dove ciascuno portasse le proprie esperienze e facesse i propri rilievi.
C’erano concorsi, lavori di orientamento agli studi e alle professioni, studi di programmi, profili professionali, profili attitudinali. Passavo di volta in volta nei vari Convitti, partecipavo alle assemblee ascoltando i loro problemi, contribuendo a un lavoro comune che era un’ansia di perfezionamento, non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche dal punto di vista tecnico delle attività che si svolgevano.
Io sono stato l’ultimo professore comandato ai Convitti; poi a un certo momento mi hanno tolto il comando e sono stato a Varese, poi al Liceo Volta di Milano, ma ancora andavo spesso a far lezione in Convitto nelle ore libere. Naturalmente questo era un esempio per tanti altri insegnanti che ormai avevano abbandonato il compito, per resistere, a dispetto di tutti, nell’organizzazione di queste scuole.
Poi sono intervenute alcune complicazioni politiche, poiché sono stato espulso dal Partito comunista italiano.
Mi sono fermato al Convitto fino al 1959. C’era la scuola media e tutti i corsi professionali che ci sono ancora oggi, frequentati da circa 400 allievi. I corsi professionali sono l’ultimo residuo delle attività del Convitto di Milano.
L’unica cosa che possiamo deplorare è che non si riscontrava un’analoga apertura mentale nei politici che facevano solo “politica”. Essi ritenevano che il problema della scuola venisse dopo la risoluzione del problema strutturale politico e sociale, mentre noi dicevamo che nello stesso tempo bisognava anche affrontare il problema di una riforma profonda della scuola. Le due esigenze, vale a dire di scuola di costume democratico e di scuola rivoluzionaria nel senso culturale –cioè che impostasse diversamente la cultura, l’informazione ai giovani e la partecipazione dei giovani alla ricerca – i politici le intendevano poco e pensavano che prima di tutto bisognasse conquistare il potere e poi fare le loro scuole.
Noi invece eravamo del parere che bisognasse contemporaneamente preparare un uomo nuovo, con tutte le difficoltà che avrebbe presentato l’inevitabile lotta che si sarebbe accesa sul problema della cultura e sul problema dell’organizzazione della scuola. Oggi purtroppo abbiamo l’amaro dovere di constatare che l’esigenza di una riforma strutturale della scuola, una riforma radicale nel senso di offrire veramente la cultura a tutti e di stroncare le vecchie tradizioni culturali false e retoriche, è un’esigenza ancora viva oggi dopo tanti anni, mentre si poteva su base politica anche ampia –perché dei democratici cristiani di sinistra erano con noi- già avviare allora; aspettando invece di risolvere il problema politico, che è ancora alla fase di trent’anni fa, non si è risolto ancora il problema della riforma della scuola.
Io ricordo che la nostra prima proposta era quella – anche se puzzava un po’ di anarchismo – di sostituire gran parte delle spese militari con le spese per l’istruzione. Avevamo già fatto un progetto, presentandolo a un governo dove c’erano anche i comunisti, per la trasformazione in scuole di novanta caserme in tutte le province italiane; occorreva cioè trasformare le spese, non solo quelle dell’Assistenza postbellica, ma le spese militari, in spese per l’istruzione. E’ su questo programma erano d’accordo tutti, anche i partiti, solo che a un certo momento l’hanno ritenuto utopistico, azzardato, e perfino dei comunisti mi hanno rimproverato di anarchismo, di voler distruggere il Ministero della Difesa, mentre io sostenevo che anche nel caso di una difesa la gente preparata tecnicamente e con una coscienza politica chiara vale di più dell’ufficiale in servizio permanente effettivo; l’abbiamo visto anche durante la guerra: i problemi più difficili non erano risolti dall’ufficiale di carriera, ma dai giovani che avevano una preparazione tecnica e politica. Giovani più preparati sarebbero stati gli elementi più efficienti per una difesa, ma il discorso è stato lasciato cadere e molte caserme sono state vendute.
Noi avevamo proposto che molti campi di aviazione, organizzati durante la guerra e che poi si liquidavano, si trasformassero in aziende agricole per fornire l’alimentazione alle scuole. E’ successo invece che, smobilitati, i campi di aviazione militare sono andati a finire ai privati che ne hanno fatto delle speculazioni, quando con poca spesa si poteva già affrontare allora la riforma della scuola.
La scuola, a parte la rivoluzione culturale nel senso critico antifascista, doveva essere la leva delle intelligenze, doveva dare la possibilità, mediante collegi di tipo popolare, a tutti quelli che avessero volontà e capacità, di svilupparsi il più possibile, con enorme beneficio della società nella quale vivevamo e viviamo tuttora. Il risultato sarebbe stato quello di un grande investimento in capacità tecniche di lavoro e anche morale del nostro paese.
Questa è stata un po’ la storia dei nostri rapporti con la cultura antifascista, ed i programmi che ne sono seguiti dovevano costituire una grande riforma della scuola nel senso di dare a tutti effettivamente la possibilità di studiare, il che secondo noi era possibile proprio mediante quei “college” dove non si tratta solo di scuola, ma si tratta di vita completa, con la possibilità di avere una biblioteca, dei laboratori, di stare in contatto quotidiano con i professori; non certo creando un’isola, perché i ragazzi potevano partecipare fuori a teatri, conferenze, riunioni sindacali. In principio infatti avevamo l’incoraggiamento di tutti, ci venivano dati i biglietti per il teatro ed il cinema.
Era la nostra un’organizzazione che proiettava i giovani fuori, era una comunità dove era possibile avere gli strumenti che non si trovavano a casa. Volevamo qualcosa come una grande moltiplicazione di istituti, come l’Istituto Normale di Pisa, dove l’allievo ha tutto, dal maestro alla biblioteca, la libertà di ricerca e l’aiuto nella ricerca.
Se si fosse risolto questo problema in grande stile sarebbe stato un vantaggio enorme non solo per risolvere il problema della formazione dei giovani, ma anche per il lavoro e le attività produttive del nostro paese.
Le convenzioni con il Ministero dell’Assistenza postbellica sono state ottenute grazie all’intervento della professoressa Maffioli sulla figlia di Nenni, la quale si è rivolta al Sottosegretario dell’Assistenza postbellica; questi ha deciso di dare i contributi per l’assistenza che poi noi abbiamo trasformato in finanziamenti per l’istruzione. Emilio Sereni era Ministro dell’Assistenza postbellica, però è stato soprattutto il Sottosegretario, il medico napoletano Berardinone, sollecitato dall’intervento della figlia di Nenni, che ha firmato le convenzioni.
Il nucleo iniziale dei convittori sono stati i partigiani, dopo sono venuti i reduci, i quali sentendo che questa istituzione risolveva i loro problemi umani quasi quasi non si differenziavano dagli altri, forse erano più scettici, ma dopo 5 o 6 mesi che erano nel Convitto erano all’avanguardia dell’operosità, dell’attività e dello studio.
Erano uomini rinati. Non parliamo poi dei mutilati che arrivavano molto sfiduciati, ma ad un certo momento rinascevano attraverso la capacità tecnica che andavano assimilando, come per esempio quella di orologiaio e di odontotecnico.
Ci siamo occupati anche dei corsi per mutilatini, avevamo cominciato prima di Don Gnocchi a fare questo lavoro, con una convenzione con l’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi che era entusiasta del nostro lavoro. Don Gnocchi poi è diventato vicepresidente dell’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi, c’ha tolto la convenzione, e noi abbiamo dovuto interrompere i corsi speciali per mutilatini a Novara. Il recupero dei mutilati adulti e dei mutilatini alla professione è stata comunque una nostra iniziativa.
Dai Convitti sono usciti circa 5000 allievi e io posso dire con grande soddisfazione che nella maggioranza non si sono conformisticamente integrati nella società, perché alcuni sono sindacalisti, altri operano in associazioni culturali progressiste o sindacali, o nei partiti politici di sinistra; si sono inseriti tutti nelle società come elementi attivi. E’ commovente per me ritrovare ora a Bergamo un convittore mutilato agli arti inferiori, sapere che possiede una serie di orologerie e conduce una vita serena e tranquilla con la sua numerosa famiglia, mentre quando era arrivato in Convitto era al limite della pazzia.
Molti degli ex convittori sono oggi dirigenti, tecnici e residenti di cooperative edilizie ed occupano delle posizioni chiave nell’economia delle regioni in cui vivono, anche nel settore alberghiero, turistico ecc. Tutta questa gente ha trovato una maniera di operare nella vita. L’ideale sarebbe stato che operassero in una società in un certo senso socializzata.
I motivi della chiusura e della fine dei Convitti sono di natura politica, di opposizione alla continuazione della Resistenza sotto forma di attività civile. Ad un certo momento le nostre scuole sono state accusate di essere il covo di sovversivi, di terroristi. Politicamente esse erano uno schiaffo alle grandi tradizioni clericali di scuole dove non spira mai un soffio di rinnovamento. La nostra concorrenza ha sempre dato fastidio, fino ad arrivare ai limiti dell’esasperazione, quando si trattava di bambini.
Per anni, per decenni, abbiamo affrontato le calunnie sulla stampa; si parlava di covi di sovversivi, poi quando venivano gli ispettori capivano che dal punto di vista tecnico le nostre erano scuole di alto livello, dove si studiava davvero. Io dico che la fine dei Convitti è stata unica soprattutto dalle organizzazioni cattoliche di destra che volevano il monopolio assoluto dell’istruzione come avevano avuto per anni. La contrarietà ad iniziative laiche nel campo della scuola è stato il motivo fondamentale.
C’è stata però una frattura perché se Andreotti e Scelba erano contrari ai Convitti fino ad emanare ingiusti decreti di sfratto, Fanfani era nel dubbio: ci dava dei fondi per istituire corsi professionali e ci mandava lettere di elogio. Era però anche lui obbligato a seguire la politica del suo partito e firmava la rescissione delle Convenzioni.
Personalmente abbiamo trovato dei democristiani che hanno riconosciuto che la nostra iniziativa era legittima anche nell’ambito costituzionale. Noi eravamo dei privati che facevano scuola e chiedevano i fondi della Stato. Noi facevamo sul serio, avevamo di fronte degli uomini che potevano dire la loro e pretendevano un’istruzione seria.
Se poi si considera come si è sviluppata la situazione politica dal 18 aprile 1948 a oggi è chiaro che istituzioni di questo tipo non potevano esistere. Ma io sono del parere che i Convitti scuola Rinascita avrebbero potuto sopravvivere se le stesse forze di sinistra avessero capito il problema.

In fondo il Convitto di Milano è resistito per un atto di indisciplina ribellistica che abbiamo fatto noi nel 1955 contro lo sfratto, quando i grandi gerarchi dei partiti comunista e socialista venuti da Roma ci hanno dato ragione e si è trovata la soluzione con le officine Tallero di Milano. Ora risposte di questo genere avrebbero salvato la situazione degli altri Convitti.
I principi erano validissimi, non erano principi di un partito, ed erano veramente calunniose le accuse che ci muovevano di essere scuole di partito. I Convitti Rinascita erano soprattutto scuole di giovani che con la democrazia volevano essere delle persone, e se non avevano i mezzi dello Stato doveva investire i fondi (anche sottraendone una parte ai bilanci militari) per la costruzione della personalità degli individui.
Il problema era politicamente vastissimo,quindi anche in sede politica io mi meraviglio come al giorno d’oggi non si sia fatta una riforma veramente radicale della scuola . Non era una riforma comunista, ma una riforma della società italiana, un investimento di fondi pubblici utili al paese,evitando una perdita di tempo enorme,che dura ancora oggi.
Io mi sono meravigliato come i partiti abbiano impostato i programmi politici sempre scollati dal paese. Riforme di democrazia umana e di sviluppo culturale tecnico si possono fare anche con alleanza di una frangia notevole della borghesia illuminata, ed è una vergogna che ha 30 anni dalla caduta del fascismo si parli ancora di riforma della scuola.

La riforma non si fa con delle pezze assistenziali, si fa risolvendo i problemi.
Sono finiti così i Convitti perché c’è stato un difetto, che è quello che vediamo ancor oggi, di uno scollamento anche delle attività politiche dei partiti italiani nell’affrontare i problemi reali della società. Il Partito comunista non si occupava con la determinata consapevolezza che imponeva il problema, ed infatti io non sono mai riuscito ad imporre ai politici, ai responsabili del partito, il problema della scuola; ne scrivevamo sui nostri opuscoli, che erano quasi clandestini, non ufficiali, non riconosciuti.
Il problema era quello di costruire una nuova scuola, era quello del “Collegio popolare”, aperto a tutti. Se si vogliono dire cose non false sulla possibilità di studiare, si deve dare tutto al giovane che non ha mezzi propri. Gli inglesi lo sanno e hanno fatto il “College” d’èlite. In Italia la Scuola Normale di Pisa è stata un esempio formidabile di cosa si può ottenere con uno strumento adeguato di sviluppo della responsabilità e capacità culturale dei giovani.
Scuole di questo tipo andavano moltiplicate per tante province, impiegando i fondi dello Stato.
Per me c’è stato un difetto della classe politica italiana, da parte di quelli che volevano conservare il sistema del passato è stato un atto di avidità incredibile, perché ci hanno messo a terra a poco a poco; hanno impiegato degli anni ma ci hanno messo a terra implacabilmente; da parte di chi era convinto della giustezza di quanto noi affermavamo c’è stato una incredibile passività e oggi la scontano con il caos in cui si trovava il problema della formazione dei giovani, del rinnovamento culturale. I Convitti Rinascita esprimevano invece in concetto di un’autentica rinascita democratica e culturale italiana.

Tratto da Luciano Raimondi, “I Convitti Scuola della Rinascita”, a cura di Nunzia Augeri, ed. Aurora, 2016, pp. 89-101







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lunedì 6 marzo 2017

OMOLOGAZIONE E ALIENAZIONE


Una straordinaria categoria di Marx attualissima: l'alienazione. Oggi l'alienazione è nella "standardizzazione" della società 'liquida' (Bauman), è nella omogeneizzazione della coscienza. Dall'articolo di Giacomo De Fanis su "La Città futura" emerge come sia il sistema capitalistico a tentare una mutazione antropologica. (fe.d.)
 

tit.: Dal liquidismo al socialismo, per una nuova lotta di classe

Come Hegel, Feuerbach e Marx hanno introdotto l’alienazione nella storia e come questa sia ancora la caratteristica fondamentale di cui tener conto per il progresso della nostra società.

“Società liquida”. Due parole, una sola realtà: il conformarsi del comportamento umano a modelli variabili, ma valenti ugualmente per tutti. Un tema in voga ai nostri giorni, senz’altro, questo dell’universalità del genere umano sotto ogni aspetto, che si fa applicazione di una costante tipica della condotta alla nostra quotidianità, questa forma di democraticismo iperbolico, sorta di uguaglianza a ribasso, di omologazione e appiattimento delle individualità senza più differenza, che ci vede tutti impegnati a standardizzarci; perché tutti uguali siamo tutti un po’ più uniti in questo mondo diviso, siamo tutti più vicini se a venir accorciate sono le distanze, e poco importa se parliamo di eliminare quelle ideologiche. In fin dei conti a mancarci è il nostro prossimo, e con esso la nostra stessa natura, questo conta, che insomma, siamo soli.
Questo stesso intendeva quel vecchio professore tedesco di Karl Marx quando parlava dell’alienazione!
Marx capì per primo, sulla storia dei processi materiali e dialettici, quello che Feuerbach aveva per primo capito dell’umanismo hegeliano: l’alienazione, quale costante del processo di ri-conoscimento di sé da parte dell’autocoscienza, che, prima di venir riconosciuta in quanto tale da se stessa, passa per il venir posta come altro-da-sé da un’altra autocoscienza, finendo coll’immedesimarsi in questa alterità per poter infine tornare a sé in piena consapevolezza di non esser mai stata se non questo processo di riconoscimento, appunto autocoscienza. In breve, non soltanto l’uomo s’aliena per potersi trovare, ma s’aliena perché perdersi è più facile (in quanto vien prima e quindi meglio) che trovarsi, e in ciò sta la predilezione dell’uomo feuerbachiano dello smarrirsi in dio, così prossimo all’uomo da sembrargli vero, ma tale perché da lui creato, senza che ora se ne renda più conto. Una dimenticanza che all’ottimismo metafisico hegeliano faceva subentrare il realismo umanistico di un pensiero rinnovato nell’ateismo come stile di vita, un atteggiamento, una “postura” intellettuale prima che una scelta effettiva. Marx diede ampio respiro al suo ateismo e ne fece una dottrina storica, materialistica e dialettica: materialistica, perché alla scienza dello spirito hegeliano si sostituiva l’analisi di classe, e dialettica, perché l’opposizione tra due realtà, il loro contrasto, era, ed è, l’unica maniera di porle in relazione senza che venga data identità – se son diversi, restano diversi e lottano fra loro!
La lotta faceva così il suo ingresso nella storia del pensiero, con la sua portata demistificante, rivoluzionaria; e faceva pure il suo ingresso nella storia dei fatti accaduti, nell’Ottocento, perché l’essenza del materialismo storico dialettico inebriava le masse operaie e contadine, alienate dal duro lavoro a cui venivano sottoposte perché il di esso prezioso frutto potesse venirgli sottratto: questa era, ed è, la logica del capitalismo, quel sistema totalitario che vale per tutti come “apparato usurpante”, metodo scelto per “risucchiare” al lavoratore la sua fatica per intero, nel doppio aspetto dell’attività produttiva e del prodotto finale. Marx intuì che la storia era ovunque popolata di realtà che fungevano come “l’altra autocoscienza” hegeliana, quella che funge per la tua da limite al riconoscimento, e capì che avevano tutte la stessa origine. Marx comprese che il problema del riconoscimento di sé era diventato per l’uomo non più solamente una costante esistenziale della sua vita, ma una costante sociale della sua storia, sicché l’autocoscienza di colui il quale incontra un limite insormontabile al suo sviluppo non è solo un altro uomo, ma è ogni altro uomo che lo coercide, e comprese che questi facevano un’associazione. A Marx si disvelò l’opposizione di classe: l’insieme degli individui che per interesse ostacolano lo sviluppo di tutti gli altri appartiene alla classe sociale che a quella di questi si contrappone. Perciò, la differenza ideologica sviluppata dalle due distinte classi non è una differenza che si può banalmente superare tentando di conciliare gli interessi, perché essendo una differenza primaria di interessi è la differenza che mette capo proprio a questa inconciliabilità! Eppure il mondo odierno sembra proprio caratterizzato da quella “società liquida” dove tutti abbiamo gli stessi valori, dove tutti facciamo gli stessi acquisti, dove tutti usufruiamo degli stessi sistemi e dove non riusciamo a scappare da queste medesimezze senza che ci paia di rinunciare pure a noi stessi, rinunciando a questi caratteri!
In effetti il capitalismo ha divorato la nostra originalità con la nostra individuale singolarità, perché ha soggiogato questa all’interesse produttivo unico del proprio modello economico: l’arricchimento tramite il denaro della classe che lo detiene, la classe borghese. Allora non soltanto siamo stati tutti vittime di un’espropriazione materiale ai nostri danni, con lo sfruttamento del lavoro salariato, ma pure di un’espropriazione spirituale, ovvero l’essenza del lavoro – che è l’essenza umana – contenuta nel prodotto finale di lavoro che il capitalismo destina al mercato. Dov’è finita la nostra autocoscienza di classe (la marxiana classe in sé e per sé)? È finita nel “calderone” del mercato globale, reificandosi in coscienza-d’altro, portandosi dietro la consapevolezza di ognuno per ognuno di noi, facendo sì che dal riconoscerci in quella folla inferocita, di ottocentesca memoria, a caccia del proprio spazio nella storia, carica di pretese e cognizione di causa, ci riducessimo a riconoscerci apparentemente in quella massa equivoca, incolta e alienata che costituisce la “melma” sociale del mondo imborghesito: i consumatori.
Il capitalismo si regge sul modello del consumismo, e noi, dimentichi di noi stessi, consumiamo (dopo averli prodotti), gli stessi valori, gli stessi oggetti, gli stessi spazi, persino la stessa “aria” per così dire, della classe borghese. Ci siamo adeguati, abbiamo lasciato che il giudizio moralizzante dell' “altra autocoscienza” hegeliana, quella che ci dice che cosa siamo prima che il nostro saper-d’essere sia completato, ci mettesse a nudo, ci scarnificasse fino a levarci colla pelle pure l’anima! Ci ritroviamo perciò a vivere in un mondo bigotto e fatto di prodotti di consumo, sicché tutto si svolge per noi ad un ritmo frenetico di metabolizzazione;
l’ “indigestione sociale” può solo accompagnare! Viviamo chiusi in una “bolla speculativa”, con l’illusione di socializzare: non è un caso che la comunicazione si sia resa interamente informatica, quando il mondo della finanza è stato il primo a farsi tale! A dettare le leggi dello sviluppo, in ogni ambito del vivente, è il modello voluto da quella classe che funge per la storia collettiva come il dio di Feuerbach funge per l’esistenza singolare: come un potente moralizzatore, alienante, insovvertibile finché lo si pensi tale, ma falso e ripugnante, come ripugnante è la vita di chi inconsciamente l’ha concepito. Basta allora che le masse, “diluite” nel mondo odierno, tornino a ricondurre la frattura di classe nella quotidianità, tornino cioè a ricordare a chi le sfrutta chi è che le alimenta, perché tornino a fare il loro ingresso nella storia, tornando così a ridare consapevolezza di sé a chi oggi, venendo derubato di se stesso dalla proprietà privata del lavoro, non la possiede. Non manca forse nella nostra realtà di tornare a predicare la differenza anziché l’identità? Non ci manca forse di poter dire che lo stile di vita e le norme di condotta del nostro nemico non ci appartengono, e quello è proprio un nemico per via delle sue imposizioni ai nostri danni? Non è un segno del progresso l’assoluta uguaglianza di tutti gli uomini; quello è il segno del taylorismo! Il progresso umano e storico lo si avrà sul serio solamente quando sarà cessata la dialettica tra interessi contrapposti, quando cioè si potranno porre in relazione di identità gli uomini, senza lotta fra loro, affinché l’uno non passi attraverso l’altro per ri-conoscersi, ma ci si veda immediatamente. L’interesse borghese, egoista e prevaricatore, fa sì che ogni uomo sia altrettanto. L’interesse comunista, paritario e mutuale, fa sì che siano rispettate da tutti le volontà di tutti. Le singole volontà sono così radicalmente differenti che quando si attuano pienamente sono irriducibili le une alle altre; ma in quanto tutte parimenti dignitarie, il loro sviluppo non può che avvenire nel rispetto reciproco e nella giustizia collettiva, che solamente uniscono sotto il segno dell’immediatezza, quella identità costituita dal ritrovare la propria essenza espressa già nell’altro; autocoscienza immediata, senza più perdita, senza più smarrimento, senza più “travaglio dialettico”. O fine delle differenze di classe, come avrebbe detto Marx. Per questo, perciò, la democrazia borghese non è il desiderio dell’uomo veramente giusto; questi desidera che la differenza sia valorizzata, sostituendo all’uguaglianza la pariteticità.
E se qualcuno volesse obiettare che le masse da sé non possono farsi, dimentica costui che il genio che dà forma migliore alla realtà non nasce fuori di questa: solamente chi si ribella, all’ingiustizia e all’oppressione, può dar vita ai suoi talenti. In un mondo grigio e imbarbarito dalla presenza della disumanità come norma della mondanità, non c’è intelligenza che si sviluppi, ci sono solo finti ideologi, fenomeni da baraccone!
Senza un ritorno alla ferocia intimamente sentita contro il nemico borghese, coalizzato con la tecnologia e coi suoi simili per dividere il fronte opposto degli oppressi; senza un’efferatezza che ci riconduca all’odio di classe e all’odio avverso agli strumenti dell’oppressione, non ci mancherà soltanto un’intelligenza che faccia progredire la folla riunitasi per l’occasione, ma ci mancheranno pure degli strumenti nostri per portare avanti la lotta, una tecnologia proletaria e antiborghese. È facile vedere allora, distopicamente lo sviluppo contemporaneo: si dirà che in fin dei conti la tecnologia giova, e giova sì, ma a chi la detiene; e il fatto che ogni cosa, dalla pubblicità ai social network, sia gestita oggi da un sistema totalitario di potere, perché totalitaria è la classe che lo detiene e totalitario è il suo interesse, è ovviamente preoccupante. Ricordiamoci perciò, laddove trovassimo in questa nostra “società liquida” l’occasione per “illanguidire” le distanze ideologiche e “ammorbidire” la differenza di classe, che ci sono sia aspetti positivi che negativi della nostra contemporaneità borghese: ma quelli positivi sono tutti del nemico e quelli negativi sono tutti nostri!
 
Giacomo De Fanis, per "la Città Futura"
 
 
                                Karl Marx e (sopra) Zygmunt Bauman,
                                sociologo recentemente scomparso
 
 
 

sabato 4 marzo 2017

GRAMSCI, DE MARTINO E L'ANALISI DELLE CLASSI SUBALTERNE MERIDIONALI


·         da Pompeo Giannantonio, "Rocco Scotellaro", Milano, Mursia,1986


ANTONIO GRAMSCI

Antonio Gramsci parte da una critica al modo come si attuò l’unificazione italiana, che per Gobetti era stato un “Risorgimento senza eroi”, per Dorso, come s’è visto, una “conquista regia” e per lui una “mancata rivoluzione agraria”. In effetti l’alleanza tra borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri consentì nel Mezzogiorno la permanenza di una struttura agraria arretrata, in cui il contadino subiva tutte le tristi conseguenze di una struttura feudale e reazionaria. Questa condizione, valutata e difesa dai ceti dominanti, permise lo sviluppo economico e l’industrializzazione del Nord, mentre l’immobilismo e l’emarginazione contrassegnavano di converso nel Mezzogiorno la grama vita delle sue popolazioni. Certamente il sacrificio del Mezzogiorno diede la possibilità al nostro Paese di uscire dallo stadio agricolo e inserirsi nel contesto delle nazioni industriali, ma la stagnazione sociale e l’inerzia fondiaria delle campagne meridionali distorsero lo sviluppo della nazione e ne accentuarono i mali antichi. In queste condizioni non fu possibile lo sviluppo omogeneo della società italiana, che viceversa marcò le sue differenziazioni e inasprì i suoi secolari contrasti. La depressione del Mezzogiorno risaliva, dunque, per Gramsci alla soluzione risorgimentale dell’organizzazione istituzionale e al privilegio allora concesso ad alcuni ceti a danno dei contadini affamati e indifesi. Si consolidò l’egemonia del capitale e si favorì l’industria a vantaggio esclusivo del Nord, per cui la restante Italia non avanzò sulla via del progresso, affondò sempre più nella sua arretratezza e si andò progressivamente disgregando. Gramsci, alla conclusione di questo complesso processo storico, osservava perciò che “il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro”. Occorreva, quindi mobilitare, il mondo rurale non solo per un’esigenza partitica e quindi di movimento politico, ma anche per rinnovare la coscienza nazionale e rendere i contadini protagonisti del proprio destino. In questa visione rivoluzionaria e civile s’inserisce il concetto dell’alleanza fra i contadini meridionali e gli operai settentrionali, che già Salvemini aveva teorizzato. Ma Gramsci, a differenza di Salvemini che mirava ad una democrazia agraria nel Sud e ad un’autonomia del ceto operaio nel Nord per una struttura più equilibrata e partecipativa della nazione, si proponeva con l’alleanza di abbattere il presente sistema per costruirne un altro, in cui la frattura fra Nord e Sud si potesse comporre su una convergenza di interessi e su una prospettiva di blocco sociale.

ERNESTO DE MARTINO

Fu Ernesto De Martino con il mondo magico, edito nel 1948, a richiamare l’attenzione sull’etnologia, confutando da un lato le categorie storiografiche crociane, incapaci di comprendere l’universo primitivo, e valorizzando dall’altro i ceti popolari, esclusi fino ad allora da ogni seria indagine scientifica. L’esplorazione delle culture emarginate e l’interesse per le comunità contadine inducevano inevitabilmente il De Martino ad affrontare il problema meridionale, che per quelle genti primitive costituiva la secolare e sofferta storia di un’esistenza travagliata. Il volume del De Martino si veniva a collocare al centro di una sua ricerca antropologica, che, iniziata nel 1941 con Naturalismo e storicismo nell’etnologia si era consolidata, l’anno dopo la pubblicazione di Il mondo magico, con il saggio Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, suscitando polemiche e animando un ampio dibattito sui popoli primitivi. L’interesse dello studioso per il Mezzogiorno si andava sviluppando verso un’analisi del rapporto tra la politica e la cultura senza trascurare i complessi legami tra intellettuali e masse (..) alle condizioni delle classi subalterne e alle loro manifestazioni culturali. Con un percorso diverso da quello sociologico lo studio del De Martino si sofferma ad indagare nel tessuto delle tradizioni e delle costumanze della società meridionale, che diveniva laboratorio di un domestico lavoro di antropologia culturale. La selezione e la distinzione, che egli andava operando, tra cultura egemonica dei ceti dominanti e cultura subalterna dei ceti popolari coincidevano con la storicizzazione che egli auspicava della società contadina, perché occorreva “indagare nella sua propria sfera culturale, secondo un problema particolare, economico-sociale, religioso, artistico e così via”. La storicizzazione del primitivo non significava per il De Martino esaltazione del popolare, che conduceva all’ipostatizzazione di una statica civiltà contadina e quindi alla separazione tra intellettuali e popolo nella vicenda esistenziale, ma mirava a ricomporre le due componenti, dominatori e dominati, in un unico contesto storico. Il dissenso del De Martino con Levi era evidente e di questo disaccordo il primo individuava le ragioni intellettuali in quell’”irrazionalismo etnologizzante” tardo-romantico, che idoleggiava il primitivo come forza creativa delle origini umane e come valore assoluto nei confronti della civiltà moderna. Queste cognizioni, estranee alla tradizione culturale italiana, erano state teorizzate da Leo Frobenius e Luciano Lévy-Bruhl, erano state introdotte da noi nel secondo dopoguerra da Cesare Pavese e avevano esercitato una certa suggestione su Levi.

La magia, il tarantinismo, il pianto funebre, la jettatura, segnano il confine tra le due culture, la egemonica e la subalterna, e nel contempo rilevano le contraddizioni tra queste usanze arcaiche e le superiori conquiste del progresso, che tuttavia non riesce a sconfiggere o a soffocare le altre inferiori manifestazioni della società. Il graduale distacco del De Martino dal Croce, alla cui scuola si era formato, non coincise con l’adesione totale al marxismo, di cui in quegli anni andava pure scoprendo il valore, per cui anche la sua scelta politica non rappresentò una conversione ideologica. Le sue categorie intellettuali non saranno sostituite da quelle marxiane, né a queste chiederà strumenti euristici di analisi e di interpretazione. Nel Il mondo magico e nelle riflessioni successive la natura, secondo l’insegnamento hegeliano, è intesa come negatività e alienazione, quindi non si riconosce l’unità uomo-natura, anzi sull’antinomia fra cultura e natura si innesta il dramma del mondo primitivo. L’influsso marxiano su De Martino si può rilevare nella valutazione che egli diede della cultura in rapporto al folclore e ai ceti popolari subalterni, che gradualmente si andavano configurando nel suo pensiero come classe sociale per cui “il folklore rappresentava il riflesso, sul piano culturale, della dipendenza economica e politica di quelle classi, era cioè cultura servile di classi politicamente asservite”.* La sua analisi parte dunque dal rapporto tra situazione materiale e universo spirituale per approdare alla definizione dell’autonomia culturale nei riguardi dei processi economici. Occorre, perciò, prendere coscienza della realtà e delle esigenze dei diversi strati sociali senza isolarsi in visioni precostituite o chiudersi in formule dogmatiche per giungere di volta in volta a quella conoscenza dei fenomeni umani e delle loro manifestazioni. L’atteggiamento del De Martino dunque era di massima disponibilità e di estrema indipendenza nei riguardi del mondo subalterno, del quale voleva capire le ragioni e i sentimenti senza barriere ideologiche o parametri interpretativi. Questa ribadita autonomia intellettuale lo portava ad affermare che “la cultura tradizionale non può più contentarsi di una semplice scienza naturale del mondo popolare e della sua cultura. Queste masse irrompendo nella storia, portano con sé le loro abitudini culturali, il loro modo di comportarsi al mondo, e la loro ingenua fede millenaristica e il loro mitologismo, e persino certi atteggiamenti magici”.


*E.DE MARTINO, GRAMSCI E IL FOLKLORE, in “Il calendario del popolo”,8,1952, p.1109.