Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 25 marzo 2016

PASSIONI


 « L'uomo deve essere liberato dalle passioni, vero e unico male. »
(Zenone di Cizio, motto degli Stoici)
ma in verità il concetto di passione rispetto a Zenone il cipriota fondatore dello stoicismo (336/263 a.C.), e' cambiato: per gli antichi Greci e una parte della cultura latina ellenizzata e' concetto negativo, radice pathos -- qualcosa che si subisce passivamente, senza volontà e autodeterminazione; oggi ha ritrovato un'accezione positiva, avere interesse, slancio vitale, determinazione. Il contrario, insomma. Il lungo e faticoso lavoro della libera ragione....


martedì 15 marzo 2016

Il compagno Luca Cafiero. Il ricordo di Luciana Castellina

Un «principe» per la sinistra

  
L'addio a Luca Cafiero. Il servizio d'ordine nel movimento studentesco, la rivista pensata (e mai nata) dieci anni prima de "il manifesto". Gli anni del distacco dalla militanza per l'impegno accademico. Il ritratto di un amico che ci ha lasciato


L'addio a Luca Cafiero.
Il servizio d'ordine nel movimento studentesco, la rivista pensata (e mai nata) dieci anni prima de "il manifesto". Gli anni del distacco dalla militanza per l'impegno accademico. Il ritratto di un amico che ci ha lasciato.
Per tanti, dopo il ’68 e nei primi anni ’70, Luca Cafiero è stato il duro ma autorevolissimo responsabile del servizio d’ordine del fortissimo Movimento Studentesco milanese , i famosi
«katanga», come venne allora ironicamente definito il «corpo» incaricato di difendere i militanti
dalle aggressioni, in quegli anni continue, dei fascisti, e di sorvegliare i cortei per evitare provocazioni.
Comincio ricordando proprio questo «pezzo» della biografia di Luca perché mi è sempre sembrato
un paradosso. Perché quella funzione gli aveva cucito addosso un personaggio che non poteva essere
più lontano dalla sua reale personalità: perché pochi compagni ho incontrato altrettanto gentili,
sensibili, generosi e anche raffinati come era Luca. (Del resto il suo vice nella direzione dei famosi
Katanga era un altro che risulta difficile pensare addetto a quella funzione: Gino Strada, fondatore di Emegency).
Luca, noi del primo gruppetto che poi ha fatto Il Manifesto, lo abbiamo conosciuto e frequentato già
molto prima del ’68, quando, a Milano, nei primissimi anni ’60, cominciò a svilupparsi una riflessione critica sulla politica del Pci cui tutti allora eravamo iscritti. Non una corrente, per carità, non avremmo neppure osato pensare ad una simile ipotesi, ma certo un comune orientamento, in parte influenzato da quello che sarebbe poi diventato l’ingraismo, molto dal profiquo approfondimento di Gramsci che avevamo intrapreso. Tanto è vero che dieci anni prima dell’uscita de Il Manifesto si era immaginata una rivista che avrebbe dovuto avere come titolo «Il Principe».
Quella rivista non si fece mai, ma a Milano il gruppo che ne discuteva era formato da Rossana
Rossanda, Lucio Magri, Michelangelo Notarianni, Aniello Coppola (poi direttore di Paese sera, allora
distaccato alla redazione milanese dell’Unità) e, per l’appunto Luca Cafiero, in quel tempo all’inizio
della sua carriera accademica, studioso di Hume e dei filosofi libertini del ’700 inglese. Noi,
interloquivamo da Roma. Luca non fu con noi nell’avventura de Il Manifesto, che inizialmente fu molto romano, anche fra i più giovani studenti sessantottini che alla nostra impresa si avvicinarono subito. A Milano il movimento prese un’altra strada, a lungo protagonista il Movimento Studentesco che poi, più tardi, quando cominciarono a prendere il sopravvento vere e proprie formazioni politiche, confluì in parte in Avanguardia Operaia (con Mario Capanna), in parte in quella che fu una diretta filiazione dei gruppi studenteschi, l’Mls (il Movimento dei lavoratori per il socialismo). È questa organizzazione che a fine anni ’70 decise di confluire nel Pdup, di cui Luca divenne vicesegretario.
Nei travagliatissimi tentativi di unificazione che conobbe negli anni ’70 la nuova sinistra, e le
tantissime separazioni che in molti casi ne seguirono, l’incontro con l’Mls fu un’eccezione: fu davvero un grande successo, subito ci mischiammo senza attriti, nella redazione del giornale e
nell’organizzazione del partito, grazie anche al rapporto di stima e amicizia che si stabilì, senza
alcuna incrinatura, con Lucio Magri.
Fu merito di tutti, certo. Ma il ruolo che ebbe Luca fu decisivo, per via della sua intelligenza e lealtà.
Noi «manifestini» del Pdup l’abbiamo tutti molto amato , ne siamo diventati, in tanti di noi, amici stretti.
Allo scioglimento del Pci, in cui eravamo tutti confluiti nel 1984, Luca non ha seguito quelli di noi
che sono passati per l’esperienza di Rifondazione comunista. Né di alcun altro tentativo politico. Si
era chiuso nella sua attività accademica, erede, alla Statale di Milano, della cattedra di storia di
filosofia del suo maestro Mario Dal Pra.
Ironico come sempre, e però ormai maledettamente scettico. È stato nuovamente con noi, qui a
Roma, nonostante la malattia lo facesse soffrire non poco, quando, l’anno scorso, furono presentati
alla Camera dei Deputati i due volumi con i discorsi parlamentari di Lucio.
Per via del suo distacco degli ultimi tempi per molti dei compagni più giovani il suo nome dice poco.
Per noi dice molto e ora che è mancato proviamo un grande rimpianto.
Grazie Luca.
 
- Luciana Castellina, 15.03.2016, pubblicato su Il Manifesto

giovedì 10 marzo 2016

M.A.MANACORDA: IL PERCORSO FORMATIVO GRAMSCIANO


IL PERCORSO FORMATIVO GRAMSCIANO
dal dogmatismo dinamico alla creatività, autodisciplina intellettuale, autonomia morale


di Mario Alighiero Manacorda

La soluzione “razionale” della crisi, quale Gramsci la intravede, consiste nella creazione di una scuola unica di base, che sia culturale e disinteressata, cioè non professionale, ma tale da contemperare con la capacità di operare intellettualmente anche la capacità di operare “manualmente” (dove “manualmente” viene subito precisato, coerentemente con le osservazioni iniziali sulla scientifizzazione delle attività pratiche, come “tecnicamente, industrialmente”). Dunque, lo sviluppo sociale (tecnico produttivo e scientifico), che ha determinato la crisi del principio culturale e educativo, e che non ha portato finora a una soluzione razionale ma ha soltanto sviluppato “spontaneamente” le contraddizioni, se guidato da una coscienza e da una volontà politica, che ovviamente debbono essere non di singoli individui, ma dei gruppi sociali direttamente coinvolti nella crisi, può sboccare in una soluzione razionale.
A questo punto Gramsci definisce meglio l’ipotesi di questa scuola unica intellettuale e manuale, la cui enunciazione improvvisa al termine della nota sull’attivismo trova qui le motivazioni profonde su cui si fondava. Essa dovrà configurarsi come una scuola integrale, un collegio-scuola – anche se inevitabilmente ciò non potrà farsi se non gradualmente e perciò, da principio, solo per delle elites – e dovrà avere dormitori, refettori, biblioteche, sale per lavori di seminario, laboratori, ecc.; preceduta da istituzioni prescolastiche non puramente assistenziali, ma educative, essa sarà nell’insieme più breve dei corsi liceali attuali, consentendo ai ragazzi di terminare i corsi a quindici-sedici anni, per poi passare o, attraverso l’orientamento professionale, a scuole specializzate professionali, o a studi superiori. Essa si configurerà tutta come scuola attiva e libera dalle forme tradizionali di disciplina, solleciterà al massimo la partecipazione degli allievi. Tuttavia questo attivismo – che Gramsci, come qui appare chiaro, ha respinto soltanto nelle sue “curiose involuzioni” innatiste e spontaneiste – comporterà nei suoi primi gradi un inevitabile dogmatismo o conformismo, non potrà, cioè, rinunciare a proporre contenuti culturali attraverso rigorose metodologie: si tratterà tuttavia di un dogmatismo “dinamico”, ben diverso dalla coercizione “brutale” di cui egli ha parlato a proposito dei gesuiti e dell’americanismo di Ford e Taylor. Nei gradi successivi, cioè al termine ormai della preadolescenza, questa scuola sarà non solo attiva ma anche creativa, con illimitata autodisciplina intellettuale e autonomia morale.
Lo studio dell’organizzazione scolastica e la ricerca del principio educativo sono qui strettamente intrecciati. E’ evidente la complessità dell’atteggiamento di Gramsci verso l’attivismo: per lui, tanto l’autoritarismo gesuitico quanto lo spontaneismo roussoiano sono storicamente superati, e il problema è dunque di trovare un nuovo rapporto tra l’una e l’altra esigenza educativa. Della concezione puerocentrica, che risale a Rousseau e che ha però dato luogo a curiose involuzioni, egli non accetta né l’innatismo, che suppone presenti per natura in ciascuno inclinazioni già formate verso questa o quella attività, né lo spontaneismo, rispettoso di un autonomo “sgomitolamento” di queste inclinazioni: accetta però in pieno la richiesta di una partecipazione attiva del ragazzo, in quanto soggetto del processo educativo. Anzi, se nella prima fase un certo conformismo o dogmatismo o coercizione (dinamici!) sono indispensabili, poi, sulla base di una personalità già formata attraverso questo rigoroso tirocinio, si può e si deve passare al massimo di autonomia. La sua conclusione è che “tutta la scuola unitaria è scuola attiva, mentre la scuola creativa è una fase, il coronamento della scuola attiva”.

Dall’Introduzione di Mario Alighiero Manacorda a A.Gramsci, L’alternativa pedagogica, Editori Riuniti, ed. 2012, pp. 30/31 [prima ed. La nuova Italia, 1972]