Articolo su Il Manifesto di sabato 27 settembre 2014
autrice: Anna Angelucci*
La consultazione popolare sul documento «La Buona Scuola» è iniziata
il 15 settembre e si concluderà a metà novembre. Ci riferiamo
al rapporto intitolato «La Buona Scuola». Presentato alla stampa il
3 settembre scorso, enuncia ambiti e modalità dei futuri interventi
legislativi immaginati da questo esecutivo: accesso alla professione,
formazione, valutazione, status giuridico, carriera dei docenti; competenze
dei dirigenti scolastici, sussidiarietà pubblico-privato, organi collegiali
e governo della scuola.
Nel merito, al netto di atti dovuti contrabbandati come scelte
(l’assunzione a tempo indeterminato di 150 mila precari imposta dalle
direttive europee) e di alcune velleità condivisibili (più arte,
più musica, più educazione fisica sin dalle elementari), il quadro che si
delinea è quello di una scuola che rinuncia definitivamente
a tutti i nostri principi costituzionali e, prima ancora, al
sistema di valori cui quei principi fanno riferimento: una scuola in cui la
competizione prevarrà sulla cooperazione, una scuola finanziata
e controllata dal mercato, una scuola marcata da un’autonomia localistica
in cui il territorio si farà destino.
Una scuola che avrà dunque rinunciato al suo mandato costituzionale,
quello di ricomporre le ineguaglianze socio-economiche e culturali
per consentire a tutte e a tutti pari opportunità di esercizio
della cittadinanza e di accesso ai saperi critici. Una scuola definitivamente
trasformata in azienda, costantemente sottoposta al vaglio del customer
care.
Come ci chiede l’Unione Europea. La quale, patteggiando la dilazione del
pareggio di bilancio con riforme neoliberiste, ci impone i diktat
della troika anche nell’istruzione.
Se leggiamo le raccomandazioni del Consiglio Europeo sul programma
italiano di stabilità del 2014 non resta alcun dubbio sul fatto che Matteo
Renzi i compiti a casa li stia eseguendo scrupolosamente. Si
chiede «la diversificazione della carriera dei docenti, la cui progressione
deve essere meglio correlata al merito e alle competenze, associata
ad una valutazione generalizzata del sistema educativo che potrebbe tradursi
in migliori risultati della scuola». Si chiede «il rafforzamento
e l’ampliamento della formazione pratica, aumentando l’apprendimento
basato sul lavoro e l’istruzione e la formazione professionale,
per assicurare una transizione agevole dalla scuola al mercato del
lavoro».
Nell’elaborato del premier tutte le consegne sono rispettate: gli scatti
di anzianità sostituiti da scatti per competenze; la valutazione incrementata
con il ricorso pervasivo ai test Invalsi e con la presenza degli
esterni; le forme di alternanza scuola-lavoro, da svolgersi più in azienda
che a scuola, assolutamente rafforzate.
Ora, come si configura la proposta dell’esecutivo? «La buona scuola» non
è un disegno o un progetto di legge presentato e discusso in
Parlamento, come
iter giuridico e istituzionale vorrebbe,
bensì un «rapporto», annunciato ai cittadini in televisione, con il consueto
corredo postmoderno di loghi e slide. «Docenti, studenti, genitori,
nonni o altro» possono registrarsi sul sito dedicato e compilare
un questionario a risposta chiusa; possono partecipare e promuovere
dibattiti sulla piattaforma, preliminarmente muniti di kit, sulla base
di un format e di una metodologia predefiniti; possono costruire
«stanze» tipo «sblocca scuola», «meno costi per le famiglie», «servizio
civile per la buona scuola».
Una modalità neppure apparentemente trasparente, poiché priva di qualunque
possibilità di verifica e di interscambio tra chi vi accede
e chi la governa. Ma l’Ocse ci ha insegnato che le riforme che hanno successo
sono legate alla creazione del consenso: nel Rapporto 2009 spiegava chiaramente
che «in Italia il decentramento e l’autonomia della scuola non ha condotto
a trattative locali su stipendi, retribuzioni e condizioni di
lavoro. Manca il consenso per dotare gli istituti e gli insegnanti
degli strumenti di governance necessari». Ed ecco allora una consultazione
telematica pronta alla bisogna, il secondo compito ben fatto del nostro
volenteroso presidente del Consiglio.
Non importa che sia un dispositivo biopolitico, come direbbe il filosofo
francese Michel Foucault, cioè di fabbricazione e controllo di forme
di espressione e spazi di libertà solo apparenti. Non importa che,
in
corpore vili, nessun cittadino culturalmente attrezzato e normodotato
avallerà mai la dismissione della scuola da parte dello Stato, chiunque sia
a chiederla. Non importa che, mentre gli italiani per due mesi si baloccheranno
sul sito della buona scuola, il ministero introdurrà i provvedimenti
varati a Bruxelles, «passodopopasso», a colpi di note, circolari
e direttive. Non importa che ci siano soluzioni diverse dall’iniquo
modello privatistico di stampo americano e anglosassone. Ci sembra
di sentirlo, il solerte Matteo, mentre fa bene i compiti a casa:
“Foucault chi?”
*Associazione Nazionale «Per la Scuola della Repubblica»