Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 31 gennaio 2018

Unire le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere al popolo


Un appello al mondo della cultura, dell’arte, della formazione e dell’Università, della comunicazione


L’«Occidente liberale» è la realizzazione o la negazione della democrazia? E l’Italia è ancora un paese democratico? E lo è nella stessa misura in cui lo è stato nei decenni alle nostre spalle e cioè in quel senso avanzato e progressivo che avevano in mente i partigiani nel liberare il paese dall’occupante nazifascista e i Padri costituenti nel sottolineare nella nostra Carta fondamentale la centralità del lavoro e della partecipazione popolare ma anche della pace, dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo, ovvero del principio di eguaglianza sul piano interno e su quello internazionale?

E’ vero: non c’è forse paese nel quale si vada così spesso a votare.
Tuttavia, la crescita esponenziale dell’astensionismo - sistematicamente sollecitato dall’ideologia dominante e dalle principali forze politiche sulla scorta del modello anglosassone e giunto ormai a livelli tali da rendere illegittimo ogni risultato elettorale -, si configura come il sintomo della de-emancipazione di fatto di milioni di persone e cioè come una revoca sostanziale di un suffragio universale divenuto, nella pratica, inutile.
Chi votiamo, oltretutto, quando andiamo alle urne? Abbiamo veramente quella libertà di scelta che l’ampiezza apparente dell’offerta lascia presagire?
Distrutti i partiti politici di massa, la scelta elettorale non è più una scelta tra posizioni realmente alternative, tra programmi e idee che siano espressione di interessi diversi o contrapposti, ma una competizione tra semplici varianti del governo neoliberale delle cose. Una sorta di perpetuo Talent Show tra cordate o comitati che, all’ombra di questo o quell’altro leader di un bonapartismo postmoderno e spettacolarizzato, ci riconducono alla prassi della vecchia Italia liberale e pre-democratica. Quando cioè i diritti politici coincidevano con il monopolio della ricchezza e i governi erano il comitato d’affari delle classi dominanti.

Inoltre: che ne è dei diritti economici e sociali conseguiti nel dopoguerra, senza i quali la democrazia rimane solo un privilegio di chi può permettersela? La loro universalità è stata in larga parte smantellata con un metodo e una meticolosità per molti versi simili dai governi di centrodestra come da quelli di centrosinistra, da Berlusconi e Salvini come da Prodi e D’Alema, da Monti come da Renzi. Ed è ridotta oggi a un servizio minimo essenziale che si propone di garantire la sola sopravvivenza.
La formazione pubblica, dalle scuole primarie all’Università, è stata sottomessa a un format privatistico che configura un sistema duale e classista. Si è imposto un modello pedagogico che dietro la retorica dell’”eccellenza” mortifica ogni merito e bisogno reale, perché - tranne che per pochi privilegiati e cioè per le élites destinate a occupare i segmenti più alti del mercato del lavoro e assorbite dai residui settori industriali avanzati ancora presenti nel paese, - deve in realtà allevare forza-lavoro a basso costo per un apparato produttivo che è in gran parte arretrato e parassitario e non ha bisogno di cultura e innovazione, ricerca e sviluppo, ma è orientato a competere al ribasso.
Il diritto alla salute esiste ormai soltanto sulla carta e le differenze sociali, determinando le capacità di accesso alle cure private, sono tornate a essere differenze che si riverberano sulla stessa aspettativa di vita dei singoli e delle classi.
Nei sistemi pensionistici ogni forma solidarietà sociale è stata smantellata e - soprattutto per quanto riguarda le generazioni più giovani, esposte a un mercato del lavoro selvaggio di tipo ottocentesco nel quale la contrattazione collettiva è stata neutralizzata e la precarietà è divenuta la norma che garantisce uno sfruttamento crescente - ciascuno si ritroverà presto solo e privo di protezioni, con i propri limiti e i propri fallimenti.

Poiché però il sistema di Welfare del dopoguerra è stato una grande operazione di redistribuzione di ricchezza e potere che muoveva dal presupposto dell’intervento dello Stato moderno nelle contraddizioni della società civile, il deserto cresciuto attorno a noi rappresenta anzitutto il segno di una grande riscossa antistatalistica delle classi proprietarie, la cui lotta di classe non è mai stata così efficace. In pochi decenni - dalla sconfitta degli operai Fiat nel 1980 al referendum sulla scala mobile e poi dagli accordi sulla concertazione e sul costo del lavoro sino al pacchetto Treu e al Jobs Act - queste classi si sono riprese con gli interessi già sul piano normativo tutto ciò che i ceti popolari erano riusciti a conquistare in centocinquanta anni di conflitto dal basso. Approfittando infine della crisi economica per ridurre al minimo la percezione stessa dei diritti sociali e per derubricare il sentimento di giustizia a innocuo moralismo impolitico.

Proprio questo è il punto fondamentale, però: a chi serve la democrazia intesa in senso pienamente moderno, quella democrazia che risulta oggi perduta in Italia come nell’«Occidente liberale», serve ai deboli o ai forti? Ai poveri o ai ricchi? A chi è già riconosciuto o agli esclusi?

Come ci ha spiegato una volta per tutte Antonio Gramsci, sono le classi subalterne ad averne più bisogno. E la storia della democrazia è in questo senso anzitutto la storia della lotta di queste classi, della loro organizzazione e della loro complicata unità, al fine di modificare rapporti di forza millenari e conquistare la dignità umana e il riconoscimento nella collettività politica.
La crisi della democrazia e la sua minimizzazione – la sua separazione da ogni elemento di socialismo -, al rovescio, è allora in primo luogo la crisi della capacità popolare di organizzarsi in classe consapevole, di confliggere e difendersi. L’incapacità degli esclusi di ricominciare a lottare contro ogni discriminazione, per portare maggiore equilibrio nelle differenze sociali e infine toglierle, per mettere in sicurezza ciò che è stato conquistato – il salario, il tempo di vita, la bellezza della partecipazione politica… - e per andare anzi ancora più avanti nella costruzione consapevole dell’unità del  genere umano.

Ma il neoliberismo odierno - ovvero il programma liberale puro e privo di ostacoli con il suo corollario post-democratico - è un destino obbligato per questa semi-colonia che è l’Italia, nella quale la retorica verbale “sovranista” dei movimenti populistici e delle destre più rozze si scontra con la realtà degli arsenali e delle armate NATO e USA presenti nel territorio?
La crescita degli squilibri sociali, della quale lo scollamento inarrestabile tra salari e profitti è plastica rappresentazione, è certamente il risultato di una sottrazione degli spazi decisionali, in seguito a una delocalizzazione dei poteri verso organismi sovranazionali e verso entità tecnocratiche irresponsabili, è vero. Ma è ancor prima il risultato di una catastrofica sconfitta sociale e politica che, pur avendo un nesso non revocabile con le vicende della Guerra Fredda e con immani trasformazioni dello scenario globale e dei rapporti di forza tra le regioni del mondo, deriva anzitutto dal venir meno della solidarietà tra le classi subalterne e dalla frantumazione della loro coscienza di sé e della loro organizzazione autonoma.
Se la democrazia è nata quando ciò che era debole e diviso si è unito, facendosi forte nel partito e nel sindacato sino a farsi riconoscere e rispettare come classe dirigente nazionale, la crisi della democrazia esplode invece quando ciò che era stato unito viene nuovamente diviso e ridiventa debole. Sino al punto che la lotta non avviene più oggi tra ciò che è in basso e ciò che è in alto, come pure viene assai spesso ritenuto dai teorici del “populismo”, ma si manifesta sempre più come una guerra tra poveri. Una guerra nella quale i più deboli non sono più in grado di comprendere le ragioni della propria sofferenza e – cosa ancor più evidente in relazione al fenomeno epocale delle migrazioni dei popoli, oggi spesso grottescamente assimilato a un fantomatico complotto sostituzionista ai danni della “razza bianca” - si scannano tra loro, esponendosi all’influenza delle destre più pericolose di vecchio come di nuovo tipo.
E’ un esito, questo, al quale purtroppo il mondo della cultura, dell’arte, della formazione, dell’università e della comunicazione – al quale in particolar modo ci rivolgiamo - non può dirsi estraneo, avendo per lungo tempo accompagnato lo slittamento a destra del quadro politico complessivo attraverso l’elaborazione di forme di coscienza ultraindividualistiche e di valori competitivi e con la contestazione relativistica dell’idea stessa di progresso, uguaglianza e giustizia sociale.

Non c’è alternativa, allora, e non ci sono scorciatoie “governiste” per chi voglia riscoprire la democrazia moderna e rilanciare – in una  fase tutt’altro che “rivoluzionaria” o anche solo espansiva - quel progetto incompiuto che la Costituzione ci ha trasmesso in eredità: non l’incubo padronale di una fantomatica democrazia immediata della rete, né il vano sforzo di condizionare o riconquistare il PD; ma un lungo lavoro di organizzazione e auto-organizzazione, di confronto e mediazione, che ricostruisca un fronte popolare tenendo insieme e facendo interagire partiti politici, forze sociali, movimenti di lotta, e che lo faccia ben al di là dell’orizzonte elettorale contingente. Un lavoro che - con umiltà e modestia - semini coerenza e intransigenza oggi per raccogliere fiducia domani.

Rinunciare, perciò, ai compromessi al ribasso e alla semplice riduzione del danno nell’ambito di un percorso di minimizzazione della democrazia e provare invece a invertire decisamente la rotta. Pur con mille insufficienze e contraddizioni - e ricominciando dopo aver appreso da quegli errori che hanno regalato militanti all’astensionismo, al Movimento 5 Stelle e alle destre -, ripensare la crisi della sinistra (che è ad un tempo la crisi della politica e della coscienza moderna) e riconquistare autonomia, per radicarci di nuovo negli interessi dei subalterni. Accumulare le forze per tornare a incidere al più presto nella realtà - anche attraverso i necessari strumenti di organizzazione, dibattito e comunicazione - e per tenere aperto l’orizzonte di una trasformazione dello stato di cose presenti.

Unire ciò che è stato diviso, ricucendo il tessuto lacerato della società
Ridare organizzazione e rappresentanza alle classi subalterne e  sostenere i popoli e i paesi oppressi o minacciati dall’oppressione
Riequilibrare i rapporti di forza nel conflitto politico e sociale
Ridistribuire ricchezza e uguaglianza nel paese e nel mondo intero
Combattere dappertutto contro il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo
Restituire finalmente pace e potere al popolo

Domenico Losurdo (Università di Urbino); Angelo d'Orsi (Università di Torino); Stefano G. Azzarà (Università di Urbino); Alexander Höbel (Università di Napoli “Federico II”); Davide Busetto (studente Università di Padova); Guido Carpi (Università “Orientale” di Napoli); Riccardo Cavallo (Università di Firenze) Antonello Cresti (saggista e musicologo); Raffaele D'Agata (Università di Sassari); Pierre Dalla Vigna (direttore Edizioni Mimesis); Marco Di Maggio ( Sapienza, Università di Roma); Carla Maria Fabiani (docente storia e filosofia nei licei, Lecce); Roberto Fineschi (Siena School for Liberal Arts); Francesca Fornario (giornalista e autrice satirica, Il Fatto Quotidiano); Gianni Fresu (UniversidadeFederal de Uberlandia, Brazil); Fabio Frosini (Università di Urbino); Guido Liguori (Università della Calabria); Giuliano Marrucci (giornalista, Rai-Report); Raul Mordenti (Università di Roma Tor Vergata); Alessandro Pascale (insegnante precario Storia e Filosofia, Milano); Marco Veronese Passarella (Leeds University); Donatello Santarone (Università di Roma III), Ferdinando Dubla (docente di filosofia e scienze umane, Taranto) + .....
25 gennaio 2018





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