Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 28 novembre 2017

IN RICORDO DELLO SCRITTORE ALESSANDRO LEOGRANDE


Alessandro Leogrande, scrittore originario di Taranto, è morto prematuramente. Della sua città porta la bellezza e il sacrificio, dalla parte di tutti coloro la cui voce arriva distante, fin troppo lontana. (fe.d.)
il ricordo di un altro scrittore dell'impegno sociale, Angelo Ferracuti su Il Manifesto [ 28/11/2017 ]

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Sono pochi gli autori che in questo sgangherato paese si possono definire civili, ancora di meno tra quelli più giovani cresciuti nelle scuole di scrittura, vampirizzati dal marketing. Alessandro Leogrande, che ho sempre immaginato affettuosamente come un fratello minore, lo era in modo enormemente consapevole da sempre. Lui era diverso dai suoi coetanei, timido e fiero, aveva una serietà di intellettuale d’altri tempi, di tipo novecentesco, però innestata dentro una vitalità tutta contemporanea e con uno sguardo internazionale. Quello che mi ha sempre colpito di lui era una onnivora curiosità politica nei confronti delle grandi questioni, la tempra di reporter di razza, il migliore della sua generazione, il migliore di tutti, la grande capacità di ascolto e sensibile generosità che metteva nel lavoro culturale, soprattutto nell’esperienza straordinaria de Lo straniero, la rivista che aveva diretto insieme a quello che è stato il suo maestro, Goffredo Fofi.
Giovanissimo, sin dal suo libro d’esordio, Un mare nascosto e poi con Le male vite, avevamo capito subito di che pasta era fatto, la sua era una scrittura intesa come lenta ricomposizione di frammenti sconnessi, quanti ne servono per ricostruire un forte effetto di realtà con una idea massimalista di una narrazione della moltitudine. Dopo, aveva scritto Uomini e caporali (UE Feltrinelli), raccontando le vite maledette dei nuovi braccianti stranieri della Capitanata, la sua Puglia, dove era nato quaranta anni fa a Taranto, scenario di un altro suo libro indimenticabile, Fumo sulla città, e ancora Il naufragio sull’affondamento della Kater i Rades, la piccola nave albanese speronata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana, 57 i morti, 24 i dispersi, 34 i superstiti.
Con La frontiera (Feltrinelli) aveva raggiunto una rara maturità stilistica, centrando uno dei temi nevralgici del mondo globalizzato, la linea invisibile che divide il pianeta, un luogo geografico, geopolitico, che è anche un immaginario mobile, le due opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e un Sud del mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici e senza democrazia.
Questo luogo eccentrico che così era descritto da Alessandro nel suo libro come «una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera». I raccontatori che incontra nei modi kapuscinskiani, perché non si limita a descrivere ma vuole spiegare, ognuno dei quali illumina una geografia e vive sulla «linea d’ombra» di Conrad, sono il giovane somalo Hamid, il camerunense Yvan Sagnet, l’enigmatico Don Mussie, l’eritreo in fuga Syoum, scampato al naufragio di Lampedusa, narratori di un mondo che molti occidentali non vogliono ascoltare.
Mentre tutti i suoi coetanei cercavano la via mondana del romanzo, Alessandro, lavorando sul campo e dal basso, con uno sguardo ad altezza d’uomo, riusciva a ridare vita al reportage narrativo in senso classico, con la perizia documentaria del giornalista d’inchiesta e le capacità del narratore nella tenuta stilistico-espressiva e nel disegnare una tramatura potente, nel tessere, montare e rimontare, intrecciando e ricucendo le tante storie tragiche e umanissime della Storia.
Una condotta unica che gli ha permesso scrivere in pochi anni alcuni libri fondamentali su come cambia il mondo, dalle parte degli ultimi, dei dannati della terra, siano essi lavoratori minacciati da violenti caporali, migranti che scappano da guerre civili, desaparecidos. Se ne occupava con serietà, passione, e il coraggio dei buoni.



giovedì 23 novembre 2017

Makarenko: la pedagogia della lotta/Iniziativa del CPA FI Sud il 25 novembre


sintesi da A.Kaminski: La pedagogia sovietica e l'opera di A.Makarenko, Avio ed., 1952
a cura di: Sara Leggieri
paragrafo: La pedagogia della lotta

LA PEDAGOGIA DELLA LOTTA

Al primo periodo della pedagogia sovietica è collegato il nome di un Commissario dell’Istruzione pubblica dell’U.R.S.S., Lunaciarskij. L’Unione Sovietica finì in una lotta armata. Tutti i giornali, i rapporti, le relazioni si riempirono con le parole “lotta”, “forza”, “combattimento”, “fronte”. Il “fronte” era la costruzione di nuove fabbriche industriali e l’organizzazione dei Kolkos. Chiaramente non si poteva continuare a utilizzare parole al posto di altre. Il linguaggio era lo specchio dello stile di vita degli uomini, che costruivano un organismo nella lotta e con gli stessi metodi utilizzati nella lotta. Makarenko aveva perfettamente capito ed attuato i principi dei compiti del 1920. Per capire meglio di cosa si occupava, basta leggere il Poema pedagogico: lotta contro il saccheggio e i furti per le strade, la lotta contro i danni alle foreste e lotta da parte dei giovani appartenenti alla Colonia. E più tardi l’organizzazione della fattoria. Per “organizzazione” s’intende la costruzione degli abitazioni distrutte, lavori pesanti di campagna e l’allevamento dei maiali. Nel suo poema Makarenko scrive che la lotta non deve finire mai perché essa cimenta la collettività nel progresso continuo. Così Makarenko abbandona la cura delle officine per dedicarsi interamente alla ricerca di un nuovo campo d’azione, di lotta e lavoro. È ben noto come, nella colonia, bande di piccoli ladri, di mascalzoni e accoltellatori potessero cambiare e diventare gruppi di ragazzi educati, puliti e avviati presso la società comunista. L’Unione Sovietica si prepara alla prima piatiletka. Tutto lo Stato vive nella rivoluzione industriale e nella costruzione di una nuova moderna industria. La fabbrica si mette in moto e tutte le attività da svolgersi, vengono da giovani e ragazzi per farne una delle maggiori imprese dell’Ucraina. 

L’atteggiamento di Makarenko in questa lotta è il tipico “atteggiamento educativo”. La temperatura della battaglia eleva i sentimenti di Makarenko che non si sforza di nasconderli. Il naturale entusiasmo giovanile viene liberato nel campo concreto delle azioni. Ciò che ne deriva non è più “educazione” ma la ricostruzione stessa della vita dei ragazzi. Nessun bambino è considerato come “germe della futura personalità” perché i processi educativi avvengono nel reale e nel concreto. 

Il fondamento della pedagogia di Makarenko è il seguente: l’educazione alla lotta, importante nella pedagogia contemporanea. W. James, psicologo americano del XIX secolo, nelle sue riflessioni psicologiche della guerra spiega che il desiderio di concludere la guerra è collegata alla conservazione dei lati positivi della guerra: eroismo, disciplina, sacrificio e fratellanza delle armi, tutto ciò ottenibile dalla creazione di grandi opere culturali che possano affascinare e far concentrare l’attenzione popolare in modo tale da poter volgere la tendenza alla distruzione di altri gruppi sociali al compito culturale che ciascun gruppo si proporrebbe. E se dalla teoria si passa alla pratica e si osservano attentamente la pedagogia sociale di Elena Radlinska, di O. Decroly, i settlements di Sciaski e via via ovunque si possa realizzare questo postulato fondamentale: scuola ed educazione non devono mai isolarsi dalla vita. Le peculiarità della “pedagogia della lotta” non si basano sulla nuova tesi educativa di Makarenko, ma sulla scala dei compiti che spettano ai giovani. 


venerdì 17 novembre 2017

L'ECOMARXISMO DI JAMES O'CONNOR E LA "SECONDA CONTRADDIZIONE"


Scomparso a 87 anni, J.O'Connor, sociologo ed economista, ha cercato di dimostrare, nella sua ricerca, che il marxismo può essere aggiornato senza fargli perdere i suoi connotati teorici fondativi. Rilevante, da questo punto di vista, la sua categoria di "seconda contraddizione", quella tra capitalismo e ambiente naturale, che rende ancora più cogente la lotta di classe, motore della storia.
Segnalo che in rete manca la voce in italiano su Wikipedia, neanche tradotta da altre lingue. (fe.d.)
Il ricordo di Giovanna Ricoveri su Il Manifesto del 17 novembre 2017.

James O’Connor, nato nel 1930, professore emerito di sociologia ed economia alla University of Santa Cruz in California, è morto domenica scorsa 12 novembre 2017 nella sua casa di Santa Cruz. Accademico e studioso militante atipico e neo-marxista.

James O’Connor è stato da sempre impegnato nelle battaglie per la giustizia sociale nel mondo e per l’integrazione razziale negli Stati Uniti. O’Connor ha scritto testi fondamentali per la comprensione del capitalismo, essenziali per capire e combattere contro la catastrofe chiamata capitalismo. Il più famoso dei suoi moltissimi libri tradotti in tutto il mondo resta La Crisi fiscale dello Statodel 1973, ed.it. Einaudi 1979, prefato da Federico Caffè, dove ha analizzato la natura contraddittoria dello stato, che pretende di essere indipendente dal capitale (dalle classi dominanti), mentre invece ne serve gli interessi, senza svolgere la funzione di mediatore di tutti gli interessi in campo al fine di raggiungere il bene comune generale.

La pubblicazione della rivista Capitalism Nature Socialism (Cns), da lui fondata nel 1988 e diretta fino al 2003, quando ha passato il testimone per ragioni di salute, ha segnato una svolta importante nel suo pensiero e anche nel suo modo di definirsi marxista e neo-marxista nelle mutate condizioni internazionali.

«Nonostante l’ambientalismo costituisca uno dei più importanti movimenti sociali sia negli Stati Uniti sia negli altri paesi, e nonostante la crisi ecologica abbia ormai raggiunto il mondo intero, i marxisti e i socialisti hanno fatto finora pochi e deboli tentativi per dare una spiegazione teorica coerente di questi fatti», affermava O’Connor nel 1988, nella introduzione al primo numero della rivista statunitense, tradotta in Capitalismo Natura Socialismo n.1/1991.

È di questo periodo la formulazione della “seconda” contraddizione, quella tra capitale e natura, seconda rispetto alla prima, quella tra capitale e lavoro – seconda perché emerge dopo la prima in senso temporale, senza tuttavia sostituirla (La seconda contraddizione del capitalismo: cause e conseguenze, Capitalismo Natura Socialismo n. 6/1992)

La rivista italiana, diretta allora da Valentino Parlato e da chi scrive, e pubblicata nei primi anni da una società de il manifesto, nacque nel 1991 nel contesto di un network di riviste di ecologia politica comprendente anche la Spagna (con Ecologia Politica diretta da Juan Martinez Alier e la Francia conEcologie et Politique diretta da Jean Paul Deléage), legate dalla stessa lettura della crisi proposta da O’Connor. La rivista italiana ebbe successo agli inizi, perché la critica di O’Connor ai vari marxismi allora esistenti – non a Marx – interpretava quella dei comunisti “dissidenti” italiani di allora e di una parte degli ambientalisti, su tre grandi temi: primo, che la crisi ecologica è causa di crisi economica e sociale, verità scomoda e per questo ancora oggi totalmente rimossa da politici ed economisti mainstream; secondo, che le due crisi sono due facce della stessa medaglia, come oggi afferma Papa Francesco; terzo, che i movimenti sociali – ambientalisti, femministi, urbani e dei lavoratori – sono determinanti al fine di superare la crisi della democrazia rappresentativa nella fase della globalizzazione finanziaria.

Le idee e i valori per cui Jim O’Connor ha vissuto e lottato non si sono certo inverati, ma sicuramente il suo impegno ha contribuito a tenerli vivi, e questo è quello che conta.

Per me è stato un amico leale sin dal nostro incontro a New York, dove lui era già docente di labour economics al Barnard College della Columbia University, e io studentessa di economia.

Non ci siamo mai persi di vista, e la nostra amicizia si è consolidata nella costruzione della rete di Cns, con incontri anche frequenti in Europa e in California, specie nella prima fase di questa iniziativa editoriale.

 

mercoledì 15 novembre 2017

Gramsci e le sue letture intorno al 1917 russo


CONVEGNO. Un incontro a Bari in cui ci sarà un confronto sulle categorie politiche sue e di Lenin

--Guido Liguori -- 

Nel gennaio 1917 un militante socialista sardo trapiantato a Torino, che si guadagnava da vivere scrivendo sulla stampa di partito e cercava di capire come uno scatto di soggettività rivoluzionaria avrebbe potuto infrangere le tranquille certezze dei marxisti riformisti intrisi di positivismo e quieto vivere, scriveva di odiare «gli indifferenti», coloro che non si impegnavano, non prendevano parte, che accettavano il mondo così come era.
POCHE SETTIMANE DOPO, quel giovane di 26 anni, Antonio Gramsci, si entusiasmò come molti in Europa per le prime notizie che giungevano da Pietrogrado, dove gli operai, le donne (tutto ebbe inizio nella giornata di lotta dell’8 marzo, che per il calendario russo corrispondeva al 24 febbraio), i contadini intruppati e armati come soldati per andare a morire al fronte, in quella guerra senza precedenti per durata e sofferenze, si erano ribellati e avevano deposto lo zar, anche se per il momento non erano riusciti a fermare la guerra.
GRAMSCI AVREBBE seguito nei mesi successivi i fatti di Russia con passione e intelligenza, avrebbe gradatamente imparato a distinguere le forze in campo, e capito pian piano che i bolscevichi erano gli unici non solo a volere la pace, ma anche una vera rivoluzione socialista: la messa in discussione degli assetti proprietari e l’autogoverno dei produttori mediante i Soviet. Con i bolscevichi per Gramsci era la volontà collettiva che aveva trionfato: erano gli essere umani associati che dimostravano di aver compreso «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva». Una lezione che, trasferita all’oggi, risulta fortemente antiliberista, poiché ci dice come le «oggettive leggi del mercato» non vadano subite, accettate, ritenute immutabile, ma possano essere cambiate, se le donne e gli uomini associati lo vogliono.
CENTO ANNI sono passati dalla Rivoluzione russa, anzi dalle due rivoluzioni russe del 1917 (di febbraio e di ottobre), e ottanta dalla morte di Antonio Gramsci, nel 1937: era quasi inevitabile che dall’incrocio di questa duplice ricorrenza nascessero antologie, articoli, convegni. Il più rilevante tra quelli previsti in Italia avrà luogo presso il Palaposte dell’Università di Bari il 16, 17 e 18 novembre, un incontro internazionale su Gramsci, la guerra e la rivoluzione. Tra oriente e occidente, realizzato dalla International Gramsci Society Italia, dalla Fondazione Gramsci di Puglia, dal Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e dalla Fondazione Gramsci di Roma, con la collaborazione del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Bari.
LO SCOPO non è solo quello di ricordare i fatti storici di quell’«indimenticabile 1917» o ricostruire la lettura che Gramsci ne diede. Il convegno si propone anche di esaminare le categorie gramsciane più importanti e misurarne l’utilità per il presente. Mettendo anche a fuoco come le categorie politiche fondamentali da cui era partito Lenin, «Stato» e «rivoluzione», cambiarono negli anni della maturità dell’autore dei Quaderni del carcere, proprio a partire da Lenin e dalla comprensione della irrepetibilità dell’Ottobre nei paesi a capitalismo maturo.
Per quest’opera di analisi storica, teorica e politica, saranno presenti in gran numero studiosi e studiose di tutto il mondo e di tutte le generazioni. Tra gli altri Donald Sassoon, Giovanna Cigliano, Giuseppe Vacca, Francesco Biscione, Silvio Suppa e Francesco Fistetti nella giornata d’apertura dedicata a «Guerra e rivoluzione», e Fabio Frosini, Lea Durante, Pasquale Voza, Eleonora Forenza e Massimo Modonesi nel secondo giorno di lavori, su «Un nuovo concetto di rivoluzione».
COMPLETERANNO I LAVORI, oltre agli altri interventi previsti (tanti i giovani studiosi e studiose impegnate su Gramsci), una pattuglia di esperte ed esperti dei paesi che una volta definivamo dell’Est (nella fattispecie Russia, Romania e Ungheria) che racconteranno come sono cambiate nel tempo, e negli ultimi anni, la percezione e la conoscenza di Gramsci nelle rispettive culture.
Infine uno spazio sarà dedicato alle scuole superiori, attivamente presenti al convegno, con un’intera sessione di lavoro (sabato mattina) dedicata all’incontro fra studenti, docenti e studiosi.

fonte: Il Manifesto, 15/11/2017


lunedì 6 novembre 2017

A CENTO ANNI DALLA RIVOLUZIONE



Una Rivoluzione lunga un secolo. A cento anni dall’Ottobre 1917



di Alexander Höbel, Segreteria Nazionale PCI, responsabile Cultura e Formazione

A un secolo esatto dalla Rivoluzione d’Ottobre, quella svolta storica conserva tutta la sua forza simbolica e politica. A lungo si è cercato di disinnescarla, soprattutto dopo la crisi del campo socialista e la fine dell’Urss. La rimozione e la demonizzazione sono state le principali strategie messe in atto per tentare di cancellare lo straordinario messaggio emancipatorio proveniente dall’Ottobre e di ridurre quest’ultimo al colpo di mano di una minoranza coesa ma sostanzialmente estranea, sovrapposta al concreto divenire storico. E invece la forza dell’Ottobre sta proprio nell’incontro tra una dinamica sociale e storica che, col massacro imperialista della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’autocrazia zarista, era giunta in Russia a un certo grado di maturazione e l’azione cosciente e organizzata di una soggettività politica, che colse tutte le potenzialità di tale contesto, e della formidabile spinta politica verso il superamento della barbarie e l’emancipazione degli oppressi che esso stava producendo.

leggi tutto in 


venerdì 3 novembre 2017

novembre 1917/novembre 2017 -- SPARTACO VIVE



novembre 1917 -- novembre 2017/ la rivoluzione socialista dei soviet sconvolge il mondo/ l'utopia divenuta scienza si realizza nella prassi rivoluzionaria/ non più catene, né sfruttati nè sfruttatori. Attenti, non giudicate da quello che considerate un epilogo, la storia dell'ideale socialista è appena all'inizio. Spartaco vive. (fe.d.)






mercoledì 1 novembre 2017

L’esperienza vittoriosa dei curdi in Siria


Un modello di democrazia, di organizzazione politica, militare e sociale per la regione.



La caduta di Raqqa, capitale del Califfato e maggiore centro del potere ISIS, segna l’apoteosi dell’organizzazione curda in Siria. YPG e YPJ hanno dato battaglia per vari anni contro forze inizialmente preponderanti dal punto di vista militare e sostenute in modo aperto da Turchia, Arabia Saudita e altri stati della Penisola arabica, i famigerati terroristi tagliagole dell’ISIS, alla cui origine non sono estranei settori consistenti degli apparati spionistici statunitensi 1.

Oltre che per i suoi indubbi successi militari, l’organizzazione curda di Siria è nota per le sue capacità di autogoverno, essendo riuscita a instaurare, pur nell’emergenza dello scontro armato quotidiano con un nemico feroce e agguerrito, significativi livelli di autogoverno e di democrazia partecipativa, contrassegnata fra l’altro, caso pressoché unico e non solo nel Medio Oriente islamico e presuntivamente arretrato, da una sostanziale parità di genere attestata fra l’altro dalle doppie cariche di vertice e dall’esistenza di un’organizzazione militare femminile autonoma.

Paradossalmente, la Siria e in particolare la sua regione nord-orientale, date le sue recenti vicende storiche, è venuta a costituire il terreno di sperimentazione delle teorie elaborate, nel carcere di Imrali, dal leader kurdo Abdullah Ocalan che costituiscono una feconda revisione del pensiero marxista e leninista in materia di organizzazione dello Stato e di transizione verso nuovi ordinamenti, che si avvale del contributo del pensiero femminista e di quello ambientalista, fra gli altri 2.

Nonostante i suoi successi, il movimento kurdo in Siria non ha mancato di sollevare perplessità e critiche in certi settori della sinistra. In sostanza tali critiche appaiono riconducibili a due elementi. In primo luogo, al fatto che il presunto secessionismo o separatismo dei Kurdi minerebbe l’integrità nazionale siriana. In secondo luogo che la loro alleanza tattica con gli Stati Uniti, la cui aviazione ha dato un contributo determinante alla vittoria dei Kurdi contro l’ISIS, costituirebbe in realtà la prova del fatto che i curdi stessi, consapevolmente o meno, sono diventati degli strumenti dell’imperialismo. A più attenta analisi entrambe le accuse si rivelano del tutto infondate.

Dal primo punto di vista, infatti, occorre constatare che, lungi dal riproporre uno sterile indipendentismo verso stati più o meno etnicamente puri, l’avanguardia cosciente del popolo kurdo, che fa capo ad Ocalan e al PKK, oltreché alla citate organizzazioni dei curdi siriani, ha delineato oramai da tempo una prospettiva federalistica che si basa sui seguenti presupposti.

Primo, l’impossibilità di delineare, in particolare in Turchia, ma anche negli altri Stati dell’area, una linea di divisione netta fra curdi e Turchi, dato che i primi popolano oramai in gran numero le grandi metropoli dell’Occidente anatolico, a cominciare da Istanbul.

Secondo, la necessità di far convergere tutte le etnie su di un progetto unitario democratico volto al rinnovamento degli Stati esistenti, progetto che in particolare in Turchia ha vissuto un momento decisivo con la costituzione del HDP, che, rispetto a precedenti tentativi (DEHAP, HADEP) tutti oggetto di brutale repressione da parte del regime turco, presenta un più evidente carattere multietnico e aspira a dare espressione a tutte le istanze della sinistra. A analogo intento risponde la scelta di dar vita, in Siria, alla coalizione multietnica delle Forze Democratiche Siriane.

Terzo, pur nella consapevolezza della profonda inadeguatezza delle frontiere attuali, tracciate dalle potenze coloniali con un tratto di penna su cartine non sempre precise, la volontà di rispettare gli stati esistenti, nella prospettiva di una possibile futura unione regionale fra di essi.

Tale prospettiva federalistica è ribadita senza ombra di dubbio dalla vigente Costituzione della Rojava 3, il cui art. 12 afferma che la Rojava fa parte della Siria.

Dal secondo punto di vista, vanno certamente registrate oscillazioni ed errori da parte degli imperialisti statunitensi, da situare del resto nel contesto del tramonto degli Stati Uniti come potenza egemone a livello mondiale. E non può certo escludersi che vi siano settori che intendono fare dei curdi esclusivamente degli esecutori militari (boots on the ground). Ma occorre anche prendere in considerazione taluni dati inoppugnabili:
L’appoggio dell’aviazione statunitense alle forze di autodifesa curde è stato decisivo per respingere l’assalto a Kobane e condurre il contrattacco.
Tale appoggio, che potrebbe non durare ancora a lungo, apre forti contraddizioni in particolare fra Stati Uniti e Turchia, che continua a costituire un alleato strategico del terrorismo fondamentalista nella regione, anche se, per motivi di carattere cosmetico, oggi Erdogan non appoggia più apertamente l’ISIS, del resto in grave crisi, ma è passato a sostenere Al Qaeda e i raggruppamenti a essa legati.
Un accordo fra Stati Uniti, Russia e altri attori presenti nella regione appare necessario per procedere a definire il quadro internazionale di riferimento della fine della guerra in Siria.
E’ altresì necessario un profondo rinnovamento democratico dello Stato siriano. A prescindere dalla questione, tutto sommato secondaria e che sarà decisa dai popoli della Siria nel loro complesso, della permanenza o meno di Bashar El Assad al potere, occorre rilanciare la democrazia e la partecipazione del basso, raccogliendo in particolare il contributo teorico e pratico proveniente dalle organizzazioni curde. Aspetti storici consolidati e positivi dell’esperienza siriana, come il suo carattere laico, vanno ovviamente ripresi e valorizzati in tale prospettiva. Del pari vanno pienamente garantiti i diritti sociali, cui è dedicato l’articolo 30 della Costituzione della Rojava.
Parallelamente va respinto ogni attacco all’integrità nazionale della Siria, respingendo il tentativo di Erdogan di infiltrarsi in alcune regioni settentrionali del Paese approfittando della presenza delle milizie fondamentaliste sue alleate.

Il progetto politico delle forze curde (PKK, YPG, YPJ e altre) della regione va quindi conosciuto e valorizzato nella prospettiva di una pace stabile, garantita dall’espulsione di ogni interesse imperialista dalla regione e da una democrazia partecipativa di tipo nuovo, in una situazione estremamente complessa e aperta tutt’ora a esiti per molti versi contrapposti o comunque fortemente divergenti.


Note

1 Su tale formazione vedi il mio ISIS e Occidente, il nemico/alleato perfetto, in http://imesipalermo.blogspot.it/2014/10/la-parola-allesperto-la-rubrica-mensile.html

2 Sul PKK vedi https://thekurdishproject.org/history-and-culture/kurdish-nationalism/pkk-kurdistan-workers-party/<. Vedi le opere di Abdullah Ocalan: Prison writings: the roots of civilization, Pluto Press, 2007; Plädoyer für den freien Menschen, Mezopotamien Verlag, 2006; Jenseits von Staat, Macht und Gewalt, Mezopotamien Verlag, 2010; La road map verso i negoziati, Punto Rosso, 2014).

3 https://ypginternational.blackblogs.org/2016/07/01/charter-of-the-social-contract-in-rojava/.

3 https://ypginternational.blackblogs.org/2016/07/01/charter-of-the-social-contract-in-rojava/.

28/10/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.