Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 28 giugno 2016

LEGALITÀ COSTITUZIONALE E GIUSTIZIA


Le ragioni del no al referendum costituzionale di ottobre spiegate a Taranto dal Procuratore capo di Torino, Armando Spataro (di origine della città) in un'affollatissima e partecipata assemblea, il 25 giugno u.s., beneaugurante per la difficile battaglia che aspetta il popolo italiano per conservare o, meglio, rendere effettiva,  la sovranità popolare.
Dal nostro punto di vista, tre sono stati i concetti espressi degni di essere sottolineati:
- è la legalità costituzionale che legittima i poteri dello Stato, non viceversa (1)
- confondere i costi della politica con i costi della democrazia è aberrante (2)
- il soverchiante ruolo dell'esecutivo è pericoloso per le sorti stesse di una democrazia costituzionale in quanto funzionale a "un uomo solo al comando" (3)

Gli interventi dal pubblico hanno evidenziato la farraginosità incomprensibile del lunghissimo dispositivo che dovrebbe sostituire l'art. 70 della Carta Costituzionale e il legame della 'deforma' con una legge elettorale illegittima e antidemocratica.
Il magistrato in pratica, con linguaggio del potere cui appartiene, ha spiegato il possibile passaggio delle società capitalistiche dall'oligarchia alla tirannide. Ora però deve esprimersi la politica, e al suo interno i comunisti devono fare la loro parte.
Sui punti sottolineati, infatti:
1)     il concetto di legalità assume un significato parziale e determinato in una lettura marxista: essa non coincide con il concetto-ideale-guida di giustizia, e nello specifico, di giustizia sociale. La legalità, infatti, non è che l’insieme delle leggi che in una fase storica i rapporti di forza politici e i rapporti sociali di classe produce. Nelle società democratiche rappresentative con la tripartizione dei poteri (Montesquieu),  la legalità si vuol far coincidere con la giustizia, ma nel sistema capitalistico la democrazia rappresentativa non coincide con la democrazia sociale, per cui legalità non coinciderà mai con giustizia. Il concetto di legalità può essere applicato alla Costituzione italiana, frutto di un compromesso avanzato, nella cornice storica della caduta del fascismo. Per cui legalità costituzionale diventa il quadro entro cui muoversi nella lotta politica per l’affermazione dei propri ideali. Non a caso, dunque, essendo la Costituzione un intralcio alle politiche neoliberiste funzionali ai rapporti di produzione, alla cultura e al senso comune del sistema capitalista, vi è un tentativo del potere esecutivo di stravolgerla, per depotenziare le assemblee parlamentari,  rese sempre più deboli (benché di sempre più ridotta rappresentatività)  per leggi elettorali che producono maggioranze artefatte e la sovranazionalità del potere economico decisionale.
2)     Il tentativo paradossale del potere esecutivo di brandire l’arma dell’antipolitica è goffo e ha il fiato corto. L’antipolitica, infatti, permette di cavalcare l’onda del senso comune di massa, quello che si afferma di voler combattere, il populismo demagogico. Ma ciò collide con i fatti concreti, con le politiche reali e dunque l’esecutivo è destinato ad avvolgersi in questa spirale contraddittoria. Andare al potere con la fumosa categoria di “rottamazione”  e allearsi con le destre, cancellare i diritti del mondo del lavoro, tentare di stravolgere la Costituzione, approvare leggi elettorali che rafforzano l’autoritarismo e la scarsa rappresentatività, rendono incredibile la frase a imitazione cinque stelle “abbassiamo i costi della politica”. Quello che si vuole cancellare, in tutta evidenza, è il costo della democrazia, che, come di consueto, viene sovvertita dalle stesse classi dirigenti che si fanno dominanti (senza consenso, Gramsci).
3)     Nelle società capitalistiche occidentali, ma in particolare in Italia, che per la conformazione della sua crisi politico-economica tende a cancellare le tracce strutturali del compromesso socialdemocratico, un tempo imposto dal PCI e dalle lotte dei lavoratori, le democrazie rappresentative sono svuotate sempre più di sovranità popolare, di democrazia sociale e di istituti di democrazia dell’autogoverno ‘dal basso’,  per cui confliggono maggiormente con la legalità costituzionale. Si rafforzano i poteri del governo e i suoi abusi, il centralismo, l’unico compromesso è quello tra oligarchie che tendenzialmente si scontrano per interessi materiali  (cfr. la critica di Gramsci alle teorie di Michels e il concetto di ‘rivoluzione passiva’) [1] e la risoluzione nel ‘cesarismo’ prima e ‘bonapartismo’ dopo (anticamente la genesi delle tirannidi, con consenso populista per giungere al potere politico autoritario). 
Una chiave di lettura marxista attuale, rende il protagonismo del solo potere giudiziario o la riduzione della questione della legalità costituzionale a mero problema giuridico, largamente insufficiente  perché interno agli stessi poteri dello Stato. E’ dunque necessario che la democrazia si renda vitale nella sua aspirazione sociale attraverso l’utilizzo della stessa democrazia: ciò rende la difesa della nostra legalità costituzionale contro le tendenze all’autoritarismo degli esecutivi di per sé un atto rivoluzionario.

ferdinando dubla, giugno 2016

[1] “Gramsci risponde in modo decisivo a Michels ponendo al centro della sua riflessione la questione del rapporto tra intellettuali e popolo. Il partito è per Gramsci, come poi lo sarà per Togliatti, un soggetto che si fa intellettuale collettivo, in cui ognuno viene chiamato a dare il proprio contributo in quanto proveniente da un pezzo d’Italia o da un determinato contesto socio-culturale. Non ci sono avanguardie a dirigere le masse e a educarle, bensì un’organizzazione che si fa intellettuale di massa, nel momento in cui in essa affluiscono sia storie e sensibilità diverse dal tessuto sociale della nazione, sia competenze e saperi da quello della produzione. È il partito in cui tutti sono filosofi e intellettuali, perché il «moderno Principe» pensa il passaggio delle masse dall’economico al politico e ha come obiettivo quindi la ricostruzione unitaria della società moderna.”

giovedì 23 giugno 2016

Cultura e crisi e crisi della cultura (Antonio Banfi)


LA VITA INSEGNA AL PENSIERO A PENSARE
cultura e crisi e crisi della cultura (Antonio Banfi)

"..la nostra cultura è in crisi [..] Ma tale crisi è da Banfi interpretata positivamente: essa non indica decadenza o sbandamento o confusione: è crisi feconda per l'affermazione di quel neoumanismo illuminista in cui la filosofia può rivendicare ancora il suo diritto a una riforma profonda della cultura nella vita stessa sociale, dell'individuo e della massa, pur mantenendo con l'opposizione a dogmatismo e a moralismo il presupposto per il quale non il pensiero insegna a vivere alla vita, ma la vita insegna al pensiero a pensare [..] come l'eticità esiga di essere risolta non nell'ambito del singolo ma in quello della collettività tutta [..] né determinando a priori il rapporto tra stato e forme della cultura; [..] nella sfera dell'umano e non nella sfera del trascendente può risolversi la crisi della civiltà contemporanea. [..] nell'affermazione del valore culturale della scienza."

G.M.Bertin, "Banfi", 1943, CEDAM, pp.41-43



mercoledì 8 giugno 2016

Dubito dunque sono: la scienza anarchica di Paul Feyerabend


Libertà, tolleranza, dialettica nell'eredità del grande epistemologo

Riccardo Paradisi
 
La filosofia ama i paradossi e coltiva il dubbio. La fa anche la scienza quando è buona scienza. E come una filosofia che si presume definitiva scade a ideologia e smette di essere ricerca filosofica così una scienza che pretende l'ultima parola sulla verità cessa di essere scienza e scade a scientismo. Paul Feyerabend è stato un filosofo della scienza che più di altri ha portato avanti il discorso contro la pretesa autoritativa della scienza che ha finito col diventare la religione, il dogma del nostro tempo di cui nessuno ha osato mettere in discussione i fondamenti stabiliti, nemmeno i pensatori più spregiudicati ed eversivi. «Kropotkin voleva infrangere tutte le istituzioni esistenti – ricorda Feyerabend nell'ultimo capitolo di Contro il metodo - ma non toccò la scienza. Ibsen si spinse molto avanti nello smascheramento delle condizioni dell'umanità del suo tempo, ma conservò ancora la scienza come misura della verità. Evans-Pritchard, Lévi-Strauss e altri hanno riconosciuto che il "pensiero occidentale", lungi dall'essere un picco solitario dello sviluppo umano, è turbato da problemi che non si riscontrano in altre ideologie: ma escludono la scienza dalla loro relativizzazione di ogni forma di pensiero. Anche per loro la scienza è una struttura neutrale contenente una conoscenza positiva che è indipendente dalla cultura, dall'ideologia e dal pregiudizio».
Invece per Feyerabend la scienza come tutte le altre conoscenze, è una narrazione, un'opinione. Contro il metodo e più ancora La scienza in una società libera – di cui quest'anno ricorre il trentacinquesimo anniversario – sono saggi con cui Feyerabend ha dato scandalo nella comunità filosofica e scientifica ma hanno allenato una generazione di pensatori e di lettori a praticare il dubbio anche là dove sembravano doverci essere solo certezze acquisite. Fayerabend, per dire, non si ferma nemmeno di fronte alla vicenda di Galileo.
Il Galileo rivoluzionario, dice, è quello che guarda nel cannocchiale e scopre le nebulose mandando in soffitta la teoria deduttiva di Aristotele sulla differenza qualitativa tra corpi celesti e corpi terrestri. Ma il Galileo che di fronte al tribunale dell'Inquisizione si rifiuta di definire le sue scoperte scientifiche come ipotesi, insistendo sul loro statuto di certezze è per Feyerabend il Galileo dogmatico che ha smesso di coltivare il metodo del dubbio e che, processato dall'inquisizione, sta gettando i presupposti teorici per nuove inquisizioni anche se di segno scientista.
Feyarabend è un provocatore naturale, politicamente scorrettissimo: arriva ad affermare in buona sostanza che ad essere in difetto scientifico non è l'inquisitore che chiede a Galileo di rubricare a ipotesi le sue teorie ma Galileo che insiste nel volerle definire delle certezze. Del resto Galileo non fu affatto guidato nelle sue scoperte da un rigore metodologico inconfutabile: il passaggio dalla teoria tolemaica a quella copernicana, dimostra che lo scienziato pisano non rispettò nessun principio su cui si fonda la scienza moderna. Nemmeno il principio del falsificazionismo - cioè l'idea che la teoria tolemaica sia stata abbandonata perché smentita dai fatti - venne rispettato da Galileo, perché la teoria copernicana non spiegava il moto dei pianeti meglio della teoria tolemaica e perché non esisteva ancora una teoria ottica che dimostrasse l'attendibilità delle osservazioni fatte al cannocchiale.
A parte il "caso Galileo" Feyerabend attacca il principale caposaldo della concezione empirista della scienza, quello della supposta omogeneità di significato dei termini che utilizzano le diverse teorie. In realtà, fa notare l'epistemologo austriaco, i termini del linguaggio scientifico non sono ricavati direttamente dall'esperienza ma attingono il loro significato dalle teorie di cui fanno parte. Insomma tra chi fa l'esperienza e l'esperienza stessa si frappone sempre la soggettività dello sperimentatore, il suo know-how, da questo discende che non esiste un metodo che possa chiamarsi universale, valido ovunque e per tutti.
Di ogni metodo è dunque opportuno dubitare, dubitare sistematicamente. Il miglior metodo scientifico, dice con un paradosso Feyerabend è proprio quello che passa per l'abolizione di ogni metodo, al limite potendo valere un metodo dialettico-comparativistico, lo scontro cioè fra diversi e contrapposti punti di vista teorici. Al vaglio di questa critica del metodo il sapere scientifico ne esce spogliato di ogni pretesa di possedere una superiorità intrinseca rispetto ad altre forme di conoscenza, come ad esempio quella artistica o quella mitica, le quali nel campo della coesione sociale o della elargizione di senso esistenziale, funzionano molto meglio della presunta conoscenza scientifica. Ma Feyerabend va oltre e ancora in Contro il metodo (sottotitolo: "Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza") arriva a sostenere che la scienza è molto più vicina al mito di quanto comunemente si creda e di quanto in particolare credano gli scienziati.
La scienza è solo una forma di pensiero, di immaginazione tra le altre che sono state elaborate nel corso della storia umana, credere nella sua superiorità è una posizione ideologica, un atto di fede. Al vaglio del dubbio metodologico di Feyerabend infatti nessuna teoria scientifica resiste al criterio della verità che semplicemente non può darsi se non per convenzione. Piuttosto, dice l'epistemologo, il rischio è che la fede nella scienza, lo scientismo, diventi in Occidente quello che la religione è divenuta in molte parti del mondo islamico, un dogma costringente una verità di stato. La scienza, infatti non solo è la più recente istituzione religiosa, diffusa ormai a livello mondiale; ma è anche la più dogmatica e la più aggressiva fra quante ve ne sono oggi. «Esiste una separazione tra Stato e chiesa ma non esiste una separazione tra stato e scienza. Eppure la scienza non ha un'autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. Ad ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l'educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili. La separazione fra stato e chiesa dovrebbe essere perciò integrata dalla separazione fra stato e scienza».
Il discorso di Feyerabend è tutt'altro che rassicurante per la mentalità ordinata e ordinaria, è piuttosto una provocazione, un invito a lasciare il porto sicuro delle idee stabilite per navigare in «un oceano, sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili», in nome di un anarchismo epistemologico il cui scopo è dimostrare che «la scienza non è l'unica via per acquisire la conoscenza, che ci sono alternative e che le alternative possono riuscire laddove la scienza ha fallito». Alternative come le concezioni irrazionali del mondo, il caos, gli stessi errori della scienza che aiutano questa a progredire: «la scienza è molto più "trascurata" e "irrazionale" della sua immagine metodologica e lo strumento di critica migliore è lo sviluppo di alternative». I critici di Feyarabend hanno contestato al filosofo austriaco di essere "un anarchico ingenuo", di limitarsi cioè nella sua critica alla pars destruens del suo obiettivo polemico, arrestandosi alla semplice destrutturazione del metodo. Ma il discorso di Feyerabend è tutt'altro che ingenuo: il filosofo di Contro il metodo mira a uno scopo eminentemente pratico e costruttivo: la sua raccomandazione è di non fare della teoria scientifica un'idea oggettiva, autoritativa e universale ma di tenere in considerazione le condizioni che si presentano volta per volta. «Le regole metodologiche devono essere adattate alle circostanze e reinventate sempre di nuovo. Ciò aumenta la libertà, la dignità e la speranza di successo». Insomma il metodo deve risultare semplicemente utile, come la zattera che serve ad attraversare il guado ma che poi, giunti alla riva opposta, non ci si carica indebitamente sulle spalle, perché altre saranno le sfide che ci opporrà la natura, a cui l'intelligenza dovrà rispondere nel merito contingente e specifico.
A Fayerabend, detto ancora altrimenti, interessa far capire che metodi e criteri sono utili, necessari e "veri" a seconda della circostanza in cui ci si trova immersi. «I criteri che usiamo e le regole che raccomandiamo – si legge ne La scienza in una società libera - hanno un solo senso solo se il mondo ha una certa struttura, mentre in ambiti dotati di una struttura diversa rimangono inapplicabili o funzionano a vuoto». In Dialogo sul metodo, saggio nato da una raccolta di appunti appunti scritti tra il 1979 e il 1989: il bersaglio polemico è l'ordine metodologico inaugurato dalla svolta cartesiana del Cogito ergo sum. La critica di questi scritti è particolarmente acuminata e arriva a cogliere la sottile questione della stessa percezione del fenomeno osservato nell'esperimento scientifico. La percezione, annota Feyerabend, è sempre subordinata ad una valutazione già culturale, a una precomprensione del mondo cioè che per essere tale è valida solo per un gruppo di uomini che la condividono. Lo stesso Io umano, sostiene il filosofo, non è mai stabile certezza dell'essere, come Cartesio credeva di aver scoperto deducendone la verità dal suo Cogito ergo sum. Dello stesso Io, dice Fyerabend, che varia in continuazione, è impossibile cogliere infatti il sostrato essenziale, fissarlo una volta per sempre.
Il tentativo di Feyerabend è quello di formulare una metodologia di indagine antimetodologica, che abbia dunque come motore anziché il cogito ergo sum cartesiano il dubito ergo sum. «Non c'è alcuna opinione, per quanto "assurda" o "immorale" che egli (il vero scienziato ndr) si rifiuti di prendere in considerazione o in conformità con la quale si rifiuti di agire, e nessun metodo è considerato indispensabile». La conoscenza così concepita «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità: è piuttosto un oceano, sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili». Leggere, rileggere Feyerabend – che ha lasciato questo mondo nel 1994 – è molto utile per chi come noi vive in un mondo sempre più percorso da neofondamentalismi: religiosi, scientisti, ideologici, persino relativisti. Feyerabend abitua a individuare il dogmatismo ovunque si annidi, a smascherarne le retoriche, a smontare i suoi presupposti; educa alla libertà e alla tolleranza ma anche alla dialettica; è un antidoto contro il potere, a cominciare dal potere che detengono le idee e soprattutto le idee dominanti. È un allenamento a diffidare anche delle proprie idee sedimentate a essere così spregiudicati da non ritenere mai superfluo un altro punto di vista, qualunque esso sia; a ritenere infine possibile che lo stato barbarico in cui l'umanità si trova ancora non sia esso stesso acquisito come un dogma, un dato definitivo.
Cosa possiamo fare in un periodo come il nostro che non ha ancora raggiunto l'equilibrio e un minimo di giustizia? si domanda Feyerabend nella sua strana e in certi passi struggente autobiografia Ammazzando il tempo. «Che possiamo fare con i nostri criminali, i loro giudici e giustizieri, quando i filosofi, i poeti, i profeti che provano a costringerci nei loro schemi, e quando noi stessi, collaboratori, vittime, o semplici spettatori, siamo ancora in uno stato barbarico? La risposta è ovvia: con poche eccezioni noi agiremo in modo barbarico, puniremo, uccideremo, opporremo guerra a guerra, professori a studenti, "leader intellettuali" al pubblico e ognuno di essi contro l'altro, parleremo di trasgressioni in termini morali altisonanti e domanderemo che violazioni della legge vengano proibite con la forza».
Ma mentre continuiamo le nostre vite in questa maniera «dovremmo almeno provare a dare una possibilità ai nostri figli. Dovremmo offrire loro amore e sicurezza, non principi, e in nessuna circostanza dovremmo gravarli del peso dei crimini del passato».
 
saggio pubblicato su Il dubbio, 8 giugno 2016
 
 

martedì 7 giugno 2016

CARLO LEVI: IL “FUOCO VITALE” DI GRAMSCI


 
Carlo Levi (1902-1975)
 

E ripensando a lui mi tornava davanti agli occhi la sua figura, perché io ho avuto la fortuna, molto giovane, ragazzo, di conoscere e anche di frequentare qualche volta Antonio Gramsci quelle volte, poche, in cui quasi sempre in compagnia di Gobetti io andai, poco più che adolescente, alla sede dell’”Ordine Nuovo”, a Torino, difesa allora dai fili spinati nel cortile e dagli operai torinesi armati. Quella sede che sembrava una fortezza delle speranze e della volontà e della libertà in mezzo alla selva della barbarie fascista che imperava nelle strade, quella sede che non fu mai occupata dai fascisti e che rimase intatta fino alla fine. Ricordo nella medesima stanza della redazione, Gramsci che ci accoglieva con un sorriso, Gobetti ed io, (Gobetti era redattore dell’”Ordine Nuovo”, redattore teatrale). Di Gobetti, Gramsci proprio nelle pagine finali del suo celebre scritto sulla Questione meridionale, ha scritto un elogio e ha lasciato agli amici di Gobetti, quasi con voce di un legato o di un testamento, una responsabilità, che, spero, di non aver tradito mai. Ora io quasi non ricordo di che cosa mai parlassimo, tanti anni sono passati,ma ricordo soprattutto la sua figura che veramente faceva vibrare l’aria attorno. Ricordo il fuoco nero dei suoi occhi e l’energia vitale, estrema, sublime, che irradiava attorno a lui. L’intensità unica della capacità di amore e anche della capacità di odio e di volontà rivoluzionaria che si leggeva nella sua figura. Io credo veramente che non ho mai visto uomini con un viso che rappresentasse in questo modo la personalità totale, così intensa, e associo in questo alla figura di Gramsci quella di Gobetti che anche egli aveva in un modo diverso una pari intensità,una pari vitalità,una pari profonda volontà rivoluzionaria.
Erano uomini che in altri tempi si sarebbero detti composti della materia dei santi, questi santi laici che da soli riescono a muovere il mondo e spostarlo e a creare veramente l’avvenire, e, anche se quello che allora potessimo aver detto (c’era una differenza di età, piccola, ma grandissima, perché non avevo ancora 16 o 17 anni, e Gramsci credo aveva allora 30 anni all’incirca), se anche non ricordo gli argomenti di cui c’eravamo in quelle rare volte trattenuti, ricordo in maniera straordinaria questa energia palese in ogni atto e in ogni pensiero, questa energia che dava al pensiero un valore assoluto, perentorio e insieme critico, questa energia che per me colora ancora oggi ogni suo scritto e che fa sì che leggendo una qualunque pagina di Gramsci io ci ritrovo questo fuoco vitale, anche al di là della lettera del testo, anche al di là di quella che può essere l’occasione o il particolare contenuto del pensiero.
dal discorso a braccio di Carlo Levi al cinema-teatro Impero di Matera sul tema “Gramsci e il Mezzogiorno, oggi”, 27 aprile 1967, cfr. C.Levi, Gramsci e il Mezzogiorno, oggi, “Basilicata”, XI, 5-6, maggio-giugno 1967, pp. 22-26
 Levi,Carlo
Gramsci e il Mezzogiorno oggi
, Basilicata, June, 1967, 5-6 pp. 22-26
Text of the speech given on the occasion of the commemoration of the 30th anniversary of the death of Gramsci (Matera).
Reprinted with the title «Gramsci e il Mezzogiorno» in Contadini e Luigini. Testi e disegni di Carlo Levi. A cura di Leonardo Sacco. Quaderni di «Basilicata», n. 2, Roma-Matera: Basilicata editrice, 1975, pp. 67-72. Also reprinted with the title «Il metodo della libertà» in Emigrazione, 4 (1977), pp. 10-15.
 

dipinto di Levi "in morte di Rocco Scotellaro" (1954)
 
 

sabato 4 giugno 2016

Carlo e Nello Rosselli: la resistenza spezzata


La resistenza spezzata di due fratelli
 
Novecento. La Francia ricorda l'assassinio di Carlo e Nello Rosselli, a 79 anni dall'agguato della polizia Cagoule, che li portò alla morte
 
Il 9 giugno del 1937, i fratelli Carlo e Nello Rosselli furono assassinati a Bagnoles de l’Orne, una stazione termale in Bassa Normandia, dalla Cagoule, su ordine del regime fascista italiano. Galeazzo Ciano aveva promesso in cambio un migliaio di fucili al gruppo di estrema destra francese.
Per ricordare questo episodio della storia europea di settantanove anni fa, oggi avrà luogo una cerimonia a Bagnoles d’Orne, con la presenza dell’ambasciatore e del console italiani, dove verrà presentato il restauro del monumento che ricorda i due fratelli antifascisti, realizzato dal laboratorio Nicoli di Carrara. E proprio ieri sera, alla Maison d’Italie (alla Cité universitaire di Parigi) è stato presentato il libro Carlo e Nello Rosselli, Testimoni di Giustizia e Libertà (edizioni Clichy, pp. 80, euro 7,90), a cura di Valdo Spini.
Carlo Rosselli, professore universitario, tra i fondatori di Giustizia e Libertà, nel 1926 aveva fondato, con Pietro Nenni, la rivista Quarto stato, che ospitava saggi di ispirazione socialista. Il fratello Nello, allievo di Gaetano Salvemini a Firenze, era uno storico del Risorgimento di idee liberali, che si era occupato in particolare di Carlo Pisacane, Mazzini e Bakunin.
Il fascismo perseguitò i due fratelli con grande tenacia, prima in Italia poi in Francia, fino a ordinare il loro assassinio. Carlo è stato al confino a Ustica, poi a Lipari: da qui, nel ’29 insieme a Fausto Nitti e Emilio Lussu, riuscì a fuggire per poi rifugiarsi in Francia. Sarà raggiunto poco dopo dal fratello Nello, il quale a sua volta era passato per il confino a Ponza.
A Bagnoles de l’Orne, i due fratelli caddero però in un agguato ordito dalla Cagoule, un’organizzazione militare fascista che, come hanno confermato anche gli studi dello storico Robert Paxton, aveva ricevuto finanziamenti dalla Germania nazista e dall’Italia di Mussolini. La Cagoule si venne a costituire in Francia durante tensione degli scontri del 1934. Fu una formazione militare segreta che cercò di far cadere il governo radicale; poi, con la vittoria del Fronte Popolare, si rese responsabile di numerosi atti di violenza e dell’assassinio di diversi oppositori e personalità.
La storia della Cagoule è ancora oggi venata di mistero, perché il generale De Gaulle aveva messo il sigillo del segreto sugli archivi riguardanti questo gruppo militare. Tra i suoi membri, figurava Eugène Schüller, fondatore de L’Oréal, padre di Liliane Bettencourt, la miliardaria oggi anziana al centro di una vicenda di soldi, finita in tribunale. Schüller era anche stato molto vicino a François Mitterrand, un’amicizia iniziata negli anni di frequentazione del pensionato dei padri mariani del 104, rue de Vaugirard.

Anna Maria Merlo, corrispondente da Parigi de Il Manifesto, 4 giugno 2016

venerdì 3 giugno 2016

A Melissa gridavano viva la Repubblica, ma i Carabinieri spararono


La "questione meridionale" di Gramsci e la conformazione della nostra Repubblica, passano ancora da Melissa? (fe.d.) 

Il 25 ottobre del 1949, dai calanchi dell’Aspromonte, sull’altopiano del Crotonese, alle pendici della Sila, in ogni paese della Calabria, dapprima in piccoli gruppi poi in decine di migliaia, un esercito di braccianti, di donne, di pastori, di reduci, invase il latifondo incolto. Il 29 ottobre, l’eccidio di Melissa.

Quel giorno, appena velato dalle nuvole, i braccianti che da qualche giorno avevano occupato i fondi di Fragalà, videro arrivare da lontano gli uomini in divisa e si disposero a semicerchio: le donne ed i bambini avanti, gli uomini dietro. Accolsero la celere con applausi «W la polizia della Repubblica, W i carabinieri della repubblica!»

Spararono! Angelina Mauro doveva sposarsi qualche giorno dopo, trovò la morte sui campi di Melissa e con Lei Antonio Zito e Francesco Nigro. Lucia Cannata lottò per gironi tra la vita e la morte. Zito era poco più di un bambino, aveva appena quindici anni.
Compiuto l’eccidio, le forze dell’ordine sparano anche sugli asini, sui barili, sfondarono le sporte.
A sera, questo esercito di lavoratori dagli scarponi chiodati, di donne scalze, rientrò in paese, portando i morti a dorso di asino, i feriti legati ai basti, trascinando le armi con cui erano andati a combattere: gli attrezzi del loro lavoro.
A Fragalà restarono le prove dei loro “crimini”: la terra liberata dai rovi, ed alcuni alberi selvatici che avevano appena innestato.
Questi “criminali” volevano lavorare, produrre per sé stessi e per gli altri.
Avevano creduto nella Costituzione che vuole le Repubblica fondata sul lavoro.
Volevano un Sud rinato grazie al loro sudore.
Incontrarono lo stato che non fu mai il loro Stato..
Morirono giovanissimi per la loro terra. Nessuno li riconobbe come martiri e come eroi. I loro nomi non dicono niente fuori della Calabria e pochissimo nella nostra stessa Regione. Le loro ossa sono andati a finire negli ossari comuni.
Dopo le cariche di polizia dei giorni precedenti alla Ferdinandea,, a Polistena, a Strongoli, ad Isola, e decine di altre città si voleva dare un esempio ai “fuorilegge” che occupavano le terre, e fu dato a Melissa!
Anche allora in Calabria c’erano tanti pregiudicati, per esempio a Cutro, nelle elezioni del 1948, non ebbero diritto di voto 272 cittadini. Erano pregiudicati! Avevano raccolto legna nel latifondo del barone Barraco che circondava il paese.
I Barraco erano la legge, i contadini i delinquenti.
Dopo Melissa, nel giro di qualche anno, l’esercito dei contadini si trasformò in un esercito di emigranti. Morirono a centinaia nelle miniere del Belgio, nelle fonderie tedesche, sui cantieri di mezzo mondo. Delle rimesse spedite in Calabria dagli emigranti, le banche drenarono il 90% per finanziare il “miracolo economico".

Sono passati tanti anni. Adesso non è solo il latifondo ad essere incolto. I rovi hanno invaso le colline e scendono veloci verso la pianura. Eravamo un popolo di braccianti senza terra, di paesi in cui la gente abitava nei tuguri, siamo diventati una terra senza più contadini, di case abbandonati, di paesi deserti.
Franco Costabile, poeta calabrese, lasciava la sua terra scrivendo: «Ce ne andiamo via / dai paesi più vecchi e più stanchi / via dai feudi / via dai baroni / o / via dai pretori, dalla polizia, dagli uomini di onore…»
Fummo sconfitti!
Nel frattempo, la Calabria ha perso la sua anima e con essa la sua dignità, l’antica fierezza, l’indomita volontà di riscatto. In Calabria e nel Sud non si produce più. Il popolo cresce i figli per vederli partire. Noi siamo gli sconfitti.
Ripensando a Melissa verrebbe la voglia di serrare i denti per non gridare la nostra rabbia. Non ci umiliate chiamandoci mafiosi. Noi siamo i figli della legge Pica, del brigantaggio, delle guerre altrui, di Melissa, della criminalizzazione di massa, dell’esodo. Noi siamo i figli diseredati dell’ingordigia e delle smisurate ricchezze dei pochi. La ’ndrangheta che, come lebbra, divora il nostro corpo è composta dagli scarti di una ben più diffusa ’ndrangheta che come una piovra soffoca il Paese. Un contadino lasciando quelle terre affermava “noi ci ritorneremo”. E forse è arrivato il momento di tornare...

articolo di Ilario Ammendolia, Il dubbio, 3 giugno 2016