Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 28 gennaio 2016

LA POLEMICA BANFI-MARCHESI NEL PCI (1945-46) SUL RUOLO DELLA SCUOLA E L’INSEGNAMENTO DEL LATINO


 
Concetto Marchesi
 
[..]Il partito comunista non trascura il problema della scuola, anche se ne urgono di più gravi; e lo considera in una prospettiva non già astrattamente rivoluzionaria e almeno per il momento utopistica, ma con meditato realismo nell’intento di contribuire anche per questa via alla ricostruzione del paese secondo una linea democratica (..) Nei dibattiti e negli scritti pubblicati da periodici comunisti nei mesi immediatamente successivi alla liberazione sono frequenti i motivi comuni della democrazia laica, in particolare la difesa della scuola pubblica dall’invadenza confessionale, il controllo statale sulla privata, la lotta contro l’analfabetismo, il prolungamento dell’obbligo, la necessità di molte e buone scuole professionali, l’ammodernamento dei programmi. (..)[1] 
Di politica scolastica, nell’ambito del programma che il partito intende presentare in vista delle elezioni per la Costituente, si parla a lungo nel V Congresso nazionale che ha luogo a Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946: particolarmente significativi sono gli interventi di Mario Alicata, Stellio Lozza, Antonio Banfi, delegati rispettivamente di Napoli, Alessandria, Milano, e di Concetto Marchesi. (..)
Banfi inizia il suo intervento parlando degli intellettuali, che definisce portatori ed ispiratori dell’atmosfera intellettuale in cui vivono i ceti medi. (..) niente è più falso dell’accusa di dogmatismo rivolta ai comunisti: “… Accusare il marxismo di essere dogmatico è scambiare la luce con le tenebre. L’origine delle nostre ideologie è la storia, è che le idee valgono in quanto si realizzano praticamente. Accusarle di dogmatismo è fare l’accusa più strana ed incredibile che si possa pensare. (..) Noi abbiamo veramente bisogno di creare una nostra cultura, una cultura che sia veramente vita del pensiero e dell’anima del popolo italiano, e, poiché il popolo italiano è di fede e credenze filosofiche, non è imponendo ad esso un credo, un dogma che questa cultura si crea”. A questo fine, ossia alla creazione di una cultura scaturente dalla concreta vita del popolo, occorre far leva anche sulla scuola. (..) E perché il lavoro scolastico sia davvero concreto e produttivo, occorrono programmi attuali, esenti da astrattezza e retorica. (..) l’umanesimo non può estraniarsi dalla realtà e dalla vita. (..)
Diversa intonazione hanno le parole di Marchesi, che ancora una volta pronuncia un’appassionata difesa della cultura classica (..) Ora se tutte le forze politiche sono d’accordo circa il prolungamento dell’obbligo scolastico, ossia sull’istituzione di una scuola media che completi il corso elementare, profondi dissensi persistono per quanto riguarda la sua struttura ed in particolare se vi debba trovare posto il latino: problema grave, dalla cui soluzione “può dipendere se oggi e domani alla classe operaia e contadina debba essere precluso o consentito l’accesso ai gradi superiori della cultura”. Ed a questo proposito va ricordato che Gramsci dal carcere ha condannato le specializzazioni precoci predeterminanti il futuro dell’alunno e proposto una formazione capace di sviluppare armonicamente le facoltà intellettuali e manuali. Sulle sue orme ritiene, a differenza di Banfi e di altri compagni, anche a questo livello indispensabile lo studio del latino, proprio per la ragione per cui lo rifiutano gli avversari, ossia perché “non serve a niente di concreto, di visibilmente utile” ed in quanto tale obbliga  ad un esercizio mentale per cui non valgono né la lingua materna né le straniere. (..) Ho sentito dire che la scuola deve formare l’uomo moderno. Io non so cosa sia quest’uomo moderno. La scuola deve formare l’uomo capace di guardare dentro sé e attorno a sé; a formare l’uomo moderno provvederanno i tempi in cui è nato. Ogni uomo è moderno nell’epoca in cui vive”. (..)
La divergenza di vedute tra Banfi e Marchesi si manifesta anche in una polemica sull’Unità[2]. Banfi definisce Marchesi “anima bella” che rifiuta la tecnica e illudendosi che la mente possa formarsi al di fuori della realtà concreta propone una formazione dell’uomo estranea al marxismo e legata ad una cultura ormai agonizzante, fondata su esercizi vuoti ed astratti quali sono richiesti dallo studio del latino. “V’è in quel dono un troppo sottile veleno di oppio e di evasione; vogliamo la nostra cultura che abbraccia, integra, interpreta per noi anche la cultura del passato, ma che riposa sulla realtà della nostra vita, nel senso umano dei suoi problemi.” Marchesi replica rifiutando “l’inconsistente cultura di un improvvisato messianesimo socialista e comunista”, denuncia il pericolo di fare del marxismo “uno stagno per ranocchi” e di dar vita a due culture diverse, per il popolo e per le élites.

 
da Tina Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla Repubblica (1943-1948), Editori Riuniti, 1976, stralci dalle pp. 90-100

Antonio Banfi


[1] Vedi anche Giorgio Bini, La politica scolastica del partito comunista, in Riforma della scuola, 1975, nr.8-9: “La scuola era vista come strumento per la ricostruzione, che poteva funzionare a condizione che fosse rinnovata la composizione di classe del movimento studentesco, facendo posto alla università degli studenti di estrazione proletaria, e come strumento di emancipazione dei giovani dei ceti popolari attraverso l’accesso alla cultura”.
[2] A.Banfi,  Uomo di ieri, uomo di oggi, 18 gennaio 1946 e C.Marchesi,  Risposta al compagno Banfi, 22 gennaio 1946.

sabato 16 gennaio 2016

giovedì 7 gennaio 2016

Tina Tomasi: i teorici dell'educazione marxista (2)


I teorici dell'educazione marxista (2)

 di Tina Tomasi

I marxisti rimproverano a gran parte degli indirizzi attivi di dare indebitamente credito e dottrine pseudo-scientifiche o a presupposti scientifici superati a od uno sperimentalismo poco attendibile; e soprattutto, per quanto riguarda la psicologia dell'età evolutiva, di soffermarsi troppo sugli aspetti irrazionali.

Essi attribuiscono poi un valore molto relativo alle tecniche didattiche, considerate come semplici strumenti utili per semplificare ed accelerate l'opera educativa; e si avvicinano agli idealisti dell'identificazione del metodo didattico con quello scientifico, pur preoccupandosi che sia adeguato all'età dell'alunno.

I primi studiosi italiani di orientamento marxista che si sono occupati di problemi educativi, ed in particolare A. Labriola (1843-1904) mettono in luce le deficienze della pedagogia positivistica; ma sono molto cauti nelle proposte di rinnovamento. In tempi a noi più vicini la figura di maggiore rilievo è A. Gramsci (1891-1937) acuto critico delle nostre istituzioni scolastiche e della tradizione culturale di cui sono l'espressione (1). Nell'attesa di radicali cambiamenti che potranno avvenire soltanto in relazione all'instaurazione di nuove strutture sociali, egli addita come primo dovere per gli educatori impegnati nella realizzazione di un'autentica democrazia, la lotta contro molti anacronismi, fra i quali la precoce ingiustificata ed ingiusta separazione scolastica tra futuri ”dirigenti“ e “governati”, tra cultura umanistica e preparazione tecnica, e la netta scissione tra la scuola e la vita.

L'efficacia educativa della vecchia scuola media italiana, quale l'aveva organizzata la vecchia legge Casati, non era da ricercare... nella volontà espressa di essere o no scuola educativa, ma nel fatto che il suo organamento ed i suoi programmi erano l'espressione di un clima culturale diffuso in tutta la società italiana per antichissima tradizione. Che un tale clima ed un tale modo di vivere siano entrati in agonia e che la scuola si sia staccata dalla vita ha determinato la crisi della scuola. Criticare i programmi e l'organamento disciplinare della scuola, vuol dire meno che niente, se non si tien conto di tali condizioni. Così si ritorna alla partecipazione realmente attiva dell'allievo alla scuola, che può esistere solo se la scuola è legata alla vita.”(1)

Ogni uomo deve infatti ricevere da una scuola unica di base statale e gratuita, prima della preparazione professionale, una formazione umana che lo metta in grado di raggiungere una visione critica del mondo, di agire responsabilmente, di superare il condizionamento dell'ambiente. Questa scuola necessita di programmi e di metodi nuovi; ed a questo proposito bisogna tener conto degli errori dell'attivismo per cui il cervello dell'alunno è  come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare in quanto ritiene il fanciullo dotato originariamente di spontaneità e di libertà, trascurando del tutto l'influenza dell'ambiente e s'illude che la formazione dell'uomo possa avvenire senza sforzo mentre invece implica sempre disciplina e spesso coercizione.
Queste idee costituiscono il punto di partenza dei marxisti italiani, oggi impegnati a svolgerle in relazione alla presente situazione storica.(2)
Tutti concordano nel ritenere che il problema del rinnovamento delle strutture e del contenuto dell'insegnamento è più importante di quello metodologico didattico; ma mentre alcuni spingono a fondo la critica verso l'attivismo, riaffermando polemicamente la funzione dell'autorità del maestro o della necessità delle lezioni giustificata dall'incapacità di autogoverno e della insufficienza dell'attività libera e personale dell'alunno tanto più grave quanto minore è la sua età; altri riconoscono meriti non indifferenti all'attivismo e si sforzano di arricchirlo di più vive e vaste istanze sociali, e convinti pur senza essere individualisti che l'individuo è un valore che va rispettato e potenziato proprio a vantaggio della collettività, si sforzano di evitare i pericoli dell'indottrinamento e della costrizione.

 
(1)    A.Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino,1949, pp.110-111
(2)    Un gruppo molto attivo si raccoglie intorno al periodico La riforma della scuola diretta da L.Lombardo Radice e D.Bertoni Jovine

 

Dall’opera di Tina Tomasi, Il metodo nella storia dell’educazione, Loescher, 1965, pp.290-92

lunedì 4 gennaio 2016

Antropologia culturale: il rapporto tra simboli, mito e riti (citazioni)


Il rapporto tra simboli, mito e riti
Nella accezione specificatamente etnologica (..) il mito è l’animazione dei fenomeni della natura, (..),  si configura cioè come una proiezione della realtà che fa parte della realtà stessa (..)La realtà si proietta in mito, il mito è proiezione della realtà (..) [G.B.Bronzini, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, Matera, 1977, p.66]
(Il mito) è un costante riaffermare il concetto di ethos, che si ripropone sin dalle civiltà arcaiche e primitive, nella sua accezione tradizionale sta ad indicare tutto il complesso di usanze, costumi, modi di comportamento, idee, credenze, categorie di valori, metri di giudizio e valutazione identici per una determinata comunità (..) [E.Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, 1976, p.175].
Dalla definizione di cultura, formulata per la prima volta da Tylor, che la considerava “quell’insieme complesso che include la conoscenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società” si è pervenuti (..) all’ipotesi proposta da Talcott Parsons, per il quale essa cultura appare costituita da sistemi simbolici i quali agiscono come orientamenti di valore che rendono possibile la socializzazione della personalità e il perpetuarsi del gruppo” [P.Rossi, Cultura e antropologia, Einaudi, 1983, p.144]
M.Freedman: “Le opere sul simbolismo hanno dimostrato in maniera particolarmente sorprendente i pregi di un metodo che indaga e analizza la configurazione delle idee e dei sentimenti gravitanti attorno ad un dato simbolo, le relazioni tra insiemi di simboli, e la connessione tra simboli e organizzazione sociale” [M.Freedman, L’antropologia culturale, Laterza, 1979, p.85.]
Infine Bronzini: “il mondo magico è il supporto rituale del mito, quindi nello stesso tempo è il suo antecedente e il suo riflesso” [op.cit., p.190]