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L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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domenica 15 giugno 2014

Athena Orchard e l'Io riflesso


Un bellissimo articolo di Sarantis Thanopoulos su Il Manifesto del 14 giugno c.a., lega la vicenda della piccola Athena ad una riflessione congruente alle teorie di G.H.Mead e C.H.Cooley

Athena Orchard, una tre­di­cenne inglese, è morta di tumore qual­che mese fa. Recen­te­mente i geni­tori hanno sco­perto una sua let­tera d’addio scritta sul retro del suo spec­chio. La let­tera resa pub­blica ha avuto una grande riso­nanza. All’inizio della let­tera Athena invita a vivere ogni giorno come se fosse spe­ciale per­ché «domat­tina potrebbe capi­tarvi una malat­tia mor­tale, come è acca­duto a me». Il suo testo a «memo­ria futura» è inge­nuo ma la sua inten­sità lo rende com­mo­vente e alcune anno­ta­zioni sulla feli­cità sono sor­pren­den­te­mente acute. La feli­cità, scrive Athena echeg­giando incon­sa­pe­vol­mente Kava­fis, «forse non è il lieto fine, forse è la sto­ria». E in un altro punto riba­di­sce: «la feli­cità è una dire­zione, non una desti­na­zione». Non è facile scri­vere que­ste parole quando il tri­ste fine è alle porte, inter­rom­pendo anzi­tempo la sto­ria, e la dire­zione porta dritto alla morte come sua unica desti­na­zione. Tut­ta­via si può com­pren­dere meglio la fidu­cia nella vita di que­sta fan­ciulla desti­nata a non fio­rire se si assume che una sto­ria è nella sua essenza sem­pre incom­piuta, senza fine, aperta alla buona e alla cat­tiva sorte. E la dire­zione non ha mai desti­na­zione, la elude. Per Athena la feli­cità è l’intenso vivere, non esat­ta­mente quello dell’«attimo fug­gente» ma l’eternità del sem­plice gesto spon­ta­neo che crea il nostro legame con il mondo senza altra aspi­ra­zione che il fluire della nostra espe­rienza. Que­sto gesto che ignora la morte e non ha una meta defi­nita, è la mate­ria prima da cui prende forma il senso della vita.

Essere psi­chi­ca­mente vivi quando moriamo è la migliore sorte che ci può capi­tare ma ciò che la osta­cola non è l’incombente morte fisica bensì la morte che ci abita inte­rior­mente fin dal momento che il nostro legame con lo spec­chio (reale o meta­fo­rico) ci inse­dia nelle con­di­zioni ogget­tive della nostra esi­stenza. L’esistenza spon­ta­nea, libera di un ordine pre­de­fi­nito, del bam­bino che costi­tui­sce il nucleo ori­gi­na­rio della nostra sog­get­ti­vità, si strut­tura riflet­ten­dosi in un ordine sociale (sim­bo­lico) che le pre­e­si­ste, in maniera meno orto­pe­dica di quanto sup­po­neva Lacan (che è stato il primo a intuire que­sto dramma ini­ziale della vita) ma comun­que trau­ma­tica, (auto)alienante. La strut­tu­ra­zione se ci pre­di­spone alla socia­lità, limita, al tempo stesso, la nostra libertà di vivere un disor­dine crea­tivo e di goderne. La nostra nascita sociale fa «morire» una parte della nostra spon­ta­neità, una parte della capa­cità di godi­mento puro, privo di altre fina­lità, che deter­mina l’intima sen­sa­zione di essere vivi. Que­sta per­dita (la radice più pro­fonda della dimen­sione melan­co­nica della vita) è ripa­rata con l’investimento nar­ci­si­stico della nostra imma­gine riflessa: il Nar­ciso che alberga in noi si aggrappa al suo spec­chio per non spro­fon­dare nella fasci­na­zione della pro­pria imma­gine che lo cat­tura dall’esterno. In «Attra­verso lo spec­chio» di Lewis Car­roll, Alice sco­pre in un dia­rio un poe­metto (Jab­ber­wocky) fatto di parole senza senso e leg­gi­bile solo se riflesso nello spec­chio. Ogni notte è neces­sa­rio attra­ver­sare lo spec­chio con Alice per entrare nel mondo del sogno, risco­prire un nostro per­so­nale disor­dine e ritro­vare l’incomprensibile (nel mondo ordi­nato in senso logico) poema del nostro idioma sog­get­tivo libero da una sua let­tura allo spec­chio che lo rad­drizza pre­giu­di­cando il suo dispie­ga­mento crea­tivo. In vici­nanza della morte lo spec­chio può riat­ti­vare l’interruzione del flusso spon­ta­neo della vita che si oppone allo sgo­mento. Scri­vendo sul retro del suo spec­chio Athena lo ha attra­ver­sato meta­fo­ri­ca­mente. Ha guar­dato la vita dal lato del sogno.

Bellissimo, vero e commovente (fe.d.)

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